Trattative Stato-mafia: le verità di Salvatore Borsellino

Domenica, 24 giugno. Sono le tre del pomeriggio. Il sole, a Mondello, non dà tregua. Salvatore Borsellino ci ha raggiunto al telefono. Abbiamo un appuntamento per un’intervista. Ci dice che ci raggiungerà con dieci minuti di ritardo. Abbiamo appena il tempo di trovare un posto all’ombra per una telefonata.

Qualche minuto dopo il fratello di Paolo Borsellino è di fronte la chiesetta. Ha preso un appartamento nel cuore di Mondello. “E’ stata un’occasione – ci dice -. Passando da qui ho lotto la scritta vendesi. Tre ore dopo visitavo la casa. E’ sempre stato uno dei sogni della mia vita. Una piccola casa con vista sul mare di Mondello”. La casa è fresca, accogliente. Affacciandosi al balcone, a sinistra, si domina il golfo di Mondello. Uno spettacolo incantevole, unico.

Con Salvatore Borsellino ci siamo sentiti una prima volta via telefono. Oggi la chiacchierata la facciamo di presenza. I temi da affrontare non mancano, alla luce di tutto quello che sta succedendo. Con lo Stato italiano ‘impegnatissimo’, tanto per cambiare, ad occultare le responsabilità delle stragi delle quali, nella migliore delle ipotesi, è stato co-protagonista. Una storia di depistaggi che comincia l’1 maggio del 1947 e che, da allora, non si è mai interrotta.

Chi, dell’Italia criminale, aveva capito tutto era il grande Fabrizio De Andrè, che nella bellissima canzone ‘Don Raffaè’ sintetizza alla perfezione la morale italiana rispetto alle malefatte dei vari poteri – politici e occulti (ammesso che tra i due ci sia differenza) – del nostro Paese: “… e lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…”.

Salvatore Borsellino, a differenza degli ‘uomini di Stato’ delle celebre canzone di De Andrè, la spugna non l’ha mai gettata. Anzi. “Subito dopo l’assassinio di mio fratello, grosso modo per cinque anni – ci dice – venivo sempre nella città dove sono nato. Nutrivo la speranza che si potesse arrivare alla verità. Andavo anche in giro per le città d’Italia. Parlavo di Paolo. Del suo lavoro. Della sua vita. Della tragedia di via d’Amelio. Ci credevo. Poi, nel 1997, ho smesso di sperare. Avevo perso la speranza. Mi dicevo: a Palermo e in Italia non cambierà mai niente”.

Salvatore Borsellino, come il fratello Paolo, è nato a Palermo nel popolare quartiere della Kalsa. Ha frequentato il Liceo nella sua città. Poi è andato via. Per quarant’anni ha fatto l’ingegnere lontano dalla Sicilia.

Per cinque anni, dal 1992 al 1997 è venuto ogni anno a Palermo. Poi, come racconta lui stesso, ha smesso di sperare. “Per dieci anni non ho più messo piede nella città dove sono nato – dice -. Nel 2007 ci ho ripensato. Ho deciso di ricominciare. Ho ritrovato la speranza? Non direi proprio. Torno a Palermo per la rabbia. Per impedire che, qui e altrove, si mistifichi il mesaggio di mio fratello”.

“Ricordo ancora il 19 luglio del 2007 – racconta -. Vedo Renato Schifani che deposita una corona di fiori in via D’Amelio. Non ci ho visto più dalla rabbia. Mi veniva di gridargli: si prenda questa corona di fiori e la porti sulla tomba di Mangano”. Vittorio Mangano è lo stalliere un po’ mafioso ‘assunto’ da Berlusconi ad Arcore, su indicazione di Marcello Dell’Utri, per proteggere le proprie aziende. Insomma: quando c’è da tutelare la ‘roba’ di verghiana memoria il Cavaliere non va tanto per il sottile. Una ‘certa ‘Milano’, in fondo, non è molto diversa da una ‘certa’ Sicilia.

“Dal 2007 – dice sempre Salvatore Borsellino –  ogni 19 luglio mi presento.  Per cacciare gli avvoltoi che vengono ad assicurarsi che mio fratello è morto. E da allora non ho mai mancato a un appuntamento. Abbiamo dato vita al movimento delle agende rosse. Ogni anno siamo qui. Per evitare che il luogo dove mio fratello Paolo è stato assassinato venga profanato dai criminali che hanno il volto delle istituzioni”.

Nell’agenda rossa il giudice Paolo Borsellino annotava le cose più importanti della sua attività di magistrato. L’agenda rossa, ci mancherebbe!, è stata fatta sparire subito dopo l’esplosione della bomba di via D’Amelio. Una ‘manina’ l’ha presa e l’ha portata via. Sparita. Volatilizzata. A Palermo, in questo genere di attività, c’è una tradizione e un’alta ‘specializzazione’. Almeno in questi frangenti lo Stato c’è. E si vede. Oggi, di questa agenda rossa, si nega persino l’esistenza.

Dall’agenda rossa la discussione scivola sulle istituzioni. “Non ho il piacere di attaccare le istituzioni – ci dice Salvatore Borsellino -. Le istituzioni, però, vanno rispettate. E vanno rappresentate in modo degno. Non si possono utilizzare le istituzioni, come sta succedendo nel nostro Paese, per ostacolare le indagini della magistratura”.

Adesso si va sul pesante. Siamo arrivati alle telefonate tra il consigliere della Presidenza della Repubblica, Loris D’Ambrosio, e l’ex ministro Nicola Mancino. “Il Presidente della Repubblica, Napolitano, deve chiarire qual è stato il suo ruolo in questa storia. Si è trattato di una gravissima ingerenza nelle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Palermo. Bene. Se D’Ambrosio ha agito di propria iniziativa, la Presidenza della Repubblica deve allontanarlo subito. Se è stato il Presidente della Repubblica a sollecitare questa gravissima iniziativa, è Napolitano che si deve dimettere”. 

Chiediamo a Borsellino di chiarirci, a suo giudizio, quale potrebbe essere stato il ruolo dell’ex ministro Mancino. “Mancino – spiega – è coinvolto in questa storia. Fino al collo. Parlo, ovviamente, della trattativa – o delle trattative – tra mafia e Stato. Dove si riscontrano complicità ad altissimi livelli. Gli inquirenti, dopo aver interrogato Mancino, gli hanno detto a chiare lettere: guardi che lei sta mentendo. Sta testimoniando il falso. A questo punto è scoppiato il finimondo”.

“Mancino si è visto perso – aggiunge Salvatore Borsellino -. E da solo. E ha detto: guardate che un uomo solo fa altri nomi... La sua è una chiara chiamata di correo. In questa vicenda ci sono varie telefonate. Mancino dice: dovete difendermi.Perché le cose, io, non le ho fatte da solo”. L’Italia ‘truffalda’ e criminale, per la prima volta, è messa a nudo. Con le spalle al muro. Così scalcia, minaccia. La magistratura di Palermo sta colpendo duro. Ma la politica, come avvenuto in altre fasi della travagliata vita del nostro Paese, ancora una volta, “non ci sta”.

La discussione si va facendo interessante. Così chiediamo a Borsellino di dire la sua su un altro personaggio che la politica italiana ha cercato di mettere in mezzo in questa storia delle indagini, quelle delle Procura della Repubblica di Palermo, da bloccare per evitare che si scopra la verità sulla trattativa – o sulle trattative – tra Stato e mafia. Parliamo di Piero Grasso, un magistrato che diventa un’anguilla quando viene chiamato a districarsi nelle situazioni difficili.

“Sono stato spesso critico verso Piero Grasso – ci dice Salvatore Borsellino -. L’ho criticato quando ha affermato che bisognerebbe dare un premio a Berlusconi per quello che ha fatto nella lotta alla mafia. In questo caso, gliel’ho detto, stava ricambiando un favore a Berlusconi che l’ha fatto nominare Procuratore nazionale antimafia bloccando Giancarlo Caselli. Detto questo, nel caso della trattativa tra Stato e mafia si è comportanto correttamente. Gli hanno chiesto di avocare le indagini e lui ha risposto: non ho poteri di avocazione. Gli hanno chiesto di accorpare le indagini di Firenze, Palermo e Caltanisetta e Grasso ha risposto: mettetemi la richiesta per iscritto. Quelli – cioè quelli che vogliono bloccare le indagini dei magistrati di Palermo – hanno replicato: dottore Grasso, come lei sa, queste cose noi gliele possiamo chiedere anche oralmente. E Grasso, molto intelligentemente, gli ha risposto per iscritto. E li ha fregati. Così quello che gli hanno chiesto ‘oralmente’ rimarrà, per iscritto, a futura memoria”.

Chiediamo: ma chi ha chiesto al Procuratore nazionale antimafia di ‘riunificare’ le indagini? “Il consulente del Presidente della Repubblica, D’Ambrosio. L’ho già detto: se lo ha fatto di propria, spontanea volontà deve essere subito licenziato. Sennò deve andare a casa chi gli ha detto di proporre a Grasso queste cose”.

Però quant’è bello il nostro Paese. Le istituzioni, ai più alti livelli, che provano a mettere la ‘mordacchia’ ai magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa – o sulle trattative – tra Stato e mafia. E quindi, di conseguenza, sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Le stesse persone, ogni anno, a maggio e a luglio, vengono a Palermo per ‘commemorare’ Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La sfacciataggine, in Italia, non ha limiti. Non c’è da rimanere ‘commossi’ nel vedere tanto ‘impegno’ profuso?

A questo punto, una domanda ci sembra quasi d’obbligo: di che cosa ha paura l’ex ministro Mancino? Perché telefona a destra e a manca? Non lo sa che i telefoni sono sotto controllo? O forse telefona proprio per questo?

“Mancino – dice sempre Salvatore Borsellino – teme che addossino solo a lui la responsabilità delle trattative tra Stato e mafia. Così, come ho già detto, si esibisce in una chiamata di correo. Non vuole pagare da solo”. 

Altra domanda: non è che i magistrati di Palermo, per caso, hanno scoperto qualcosa che non si vuole a tutti i costi fare venire fuori? “Non convengo con questa tesi – risponde il nostro interlocutore -. A lavorare su questo caso sono ottimi magistrati. Stanno raccogliendo le prove. Magari, in questa fase, non hanno tutti gli elementi per trascinare in giudizio certi personaggi. E’ un po’ la storia della polemica tra Leoluca Orlando e Giovanni Falcone di circa vent’anni fa. Allora Orlando accusava Falcone di tenere le ‘carte’ nei cassetti. Falcone replicava dicendo che le affermazioni di Orlando non rispondevano al vero. In realtà, avevano ragione tutt’e due. Orlando sapeva alcune cose sui politici dell’epoca. Cose che anche i magistrati conoscevano. Ma questi ultimi non avevano le prove per dimostrare alcuni passaggi cruciali di certe indagini”.

“Per certi versi – aggiunge – è quello che abbiamo vissuto con il processo Andreotti. Su alcuni passaggi dell’accusa le prove non sono state trovate. Penso al vassoio d’argento sparito. Però quel processo andava fatto. Andreotti stava per diventare Presidente della Repubblica. Se nel marzo del 1992 non avessero ammazzato Lima sarebbe diventato capo dello Stato. Pensate un po’: dobbiamo ringraziare i mafiosi che hanno ammazzato Lima se Andreotti non è diventato Presidente ella Repubblica”.

Facciamo osservare che, in un’intervista al nostro giornale, l’ex ministro della Repubblica, Calogero Mannino, ha affermato che di trattative Stato-mafia ce ne potrebbero essere state almeno due. “Ha ragione – replica Salvatore Borsellino -. La prima trattativa è cominciata quando la mafia aveva deciso di ammazzare Salvo Andò, Carlo Vizzini e lo stesso Mannino. A condurre questa prima trattativa è stato, con molta probabilità, Vito Ciancimino. Che affrontava, come dire?, la questione direttamente con Totò Riina. La prima trattativa si chiude con l’assassinio di mio fratello Paolo e della sua scorta. Anzi, se proprio la dobbiamo dire tutta, è proprio la prima trattativa tra Stato e mafia che accelera l’eliminazione di mio fratello”.

“Una volta ucciso mio fratello -osserva ancora Salvatore Borsellino – si apre una seconda trattativa tra Stato e mafia -. A questo punto Vito Ciancimino non serve più. La questione diventa politica. All’inizio, come si ricorderà, la mafia manifesta l’intenzione di entrare in politica con un proprio partito. Si parlava, allora, di una sorta di Lega del Sud. Poi, però, giunge notizia che sta per nascere una nuova forza politica. Una forza politica che garantirà direttamente gli interessi della mafia…”.

C’è un altro personaggio sul qualche chiediamo ‘lumi’ al nostro interlocutore. E’  l’ex Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Un nome che, in questi giorni di aspre polemiche, rimane ancora in ombra. “Scalfaro – osserva sempre Salvatore Borsellino -non è un personaggio qualunque -. E’ noto che viene scelto quale Presidente della Repubblica subito dopo la strage di Capaci. In quel particolare momento storico per l’Italia, la sua non è affatto una scelta casuale. E lo dimostrerà nei fatti e negli atti. Quando lo tirano in ballo lui reagisce con veemenza, pronunciando parole rimaste ‘famose’: “Io non ci sto”. A che cosa non stava Scalfaro? Ai fondi neri? In queste sue parole c’è dell’altro. E’ probabile che mandi un messaggio a qualcuno”.

Dalle parole ai silenzi. “Il linguaggio allusivo, i messaggi in codice e anche i silenzi – dice sempre il fratello del magistrato assassinato il 19 luglio del 1992 a via d’Amelio – sono caratteristiche tipiche della politica mafiosa del nostro Paese. Ricordate Giuseppe Graviano? Ricordate quando gli chiesero se conosceva certi personaggi importanti della politica italiana? Per un secondo, due secondi, tre secondi Graviano tacque. In quei pochi secondi qualcuno, in Italia, ha provato una grande paura”.

Non sappiamo come, ma a un certo punto la discussione si sposta su Bruno Contrada, nel 1992 numero tre del Sisde, i Servizi segreti civili del nostro Paese. Contrada, per la cronaca, già ai vertici della Squadra mobile a Palermo, è stato condannato – con sentenza passata in giudicato – per concorso esterno in associazione mafiosa.

“Ricordo – dice sempre Salvatore Borsellino – quando, qualche anno fa, l’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stava per concedere la grazia a Contrada. Poi qualcuno andò da lui e gli disse: Presidente, ma che sta facendo? Tra l’altro, Contrada la grazia non l’aveva nemmeno chiesta. Un bell’inghippo. Dove un ruolo centrale, tanto per cambiare, lo stava giocando proprio  Lori D’Ambrosio, il consulente che oggi telefona a destra e a manca. L’eterno ritorno delle stesse cose”.

Non può mancare una domanda sugli ‘smemorati’. Ovvero sulle persone – politici ma non solo – che, a distanza di cent’anni dalle stragi del 1992 e del 1993, improvvisamente, cominciano a ricordare. E a raccontare cose che, fino a qualche tempo fa, non avevano mai raccontato.

“Altre belle storie – dice sempre il nostro interlocutore -. In questi mesi, ad esempio, mi sono chiesto: perché Luciano Violante (nella foto a destra) parla solo ora? Perché ha detto che ilpd non avrebbe mai votato una legge contro il conflitto di interessi di Berlusconi? Per quello che mi riguarda, ho avuto a che fare con Violante dal 1992 al 1997, quando, come ho già ricordato, nutrivo ancora la speranza che in questo Paese si potesse arrivare alla verità sulle connivenze tra Stato e mafia. Poi, sentendolo parlare in alcune occasioni, ho cominciato a riflettere. Perché, mi sono chiesto, non difende i magistrati dagli attacchi furibondi che gli arrivavano da una certa parte politica?”.

Lei come lo spiega quest atteggiamento?, chiediamo. “Guardi – ci risponde – io pongo le domande. Le risposte spero che arrivino dai magistrati. Quello che so è che Violante sperava di diventare Presidente della Repubblica. Quanto al suo ruolo in tutte queste storie, beh, un ruolo, non certo secondario, l’ha esercitato anche lui. Sicuramente ha conosciuto e ha taciuto. Per quanto mi riguarda, chi ha taciuto sui fatti di via D’Amelio è un complice”.

I rapporti tra Salvatore Borsellino e le cosiddette ‘istituzioni’ non sono semplici. “Da quando, nel 2007, sono tornato, le istituzioni sono sparite – dice sempre il nostro interlocutore -. In via D’Amelio si fanno vedere quando sanno che non ci sono. Sennò si tengono alla larga. Le racconto un episodio capitato nel 2009. Il Presidente Napolitano sarebbe dovuto venire a Palermo. Sapete cosa fanno? Telefonano all’aeroporto ‘Falcone-Borsellino’  per sapere se c’era un biglietto aereo prenotato da Salvatore Borsellino. Prima di andare in via D’Amelio si volevano assicurare che io non fossi a Palermo”.

Inutile chiedergli se prende parte, ogni anno, alle commemorazioni di Giovanni Falcone. “Partecipano tante persone per bene – ci dice -. E questa è una cosa bella. Ma ci vanno anche quelli che hanno fatto ammazzare Falcone.Io non partecipo. Non mi va proprio di vederecerta gente”.

Arriviamo al giorno della strage di via D’Amelio: 19 luglio 1992. Nella storia – anzi, nel giallo di via D’Amelio – entra anche Giuseppe Ayala (nella foto a destra). E’il magistrato, collega di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Anche questa è una storia un po’ strana. “Molto strana – aggiunge Salvatore Borsellino -. Anche perché, su questa storia, il signor Ayala ha raccontato non ricordo più se sette o otto versioni. Lui arriva subito dopo la strage. Fa forzare lo sportello dell’automobile dove viaggiava mio fratello. Prende la borsa di mio fratello e, caso strano, non ricorda a chi l’ha consegnata. Intanto vorrei ricordare che quando si arriva in una scena del crimine non si tocca nulla. E questo Ayala, da magistrato, dovrebbe saperlo benissimo. Invece fa forzare lo sportello dell’automobile, prende la borsa di mio fratello e lì cominciano altri misteri”.

Sempre per la cronaca, della sparizione della borsa non si sa più nulla. C’è una foto che ritrae un signore con una borsa tra le mani. Ma, grazie a Dio, la vicenda è stata chiarita in modo molto italiano: tutti innocenti, tutti a casa. E la borsa? Vattelappesca! Alla fine è un ‘dettaglio’, no?

“Mi chiede cosa penso del signor Ayala? E che devo pensare? So che ha accumulato un bel debito di circa trecento milioni di lire. Ecco, in questo momento mi metto a ragionare come avrebbe ragionato mio fratello magistrato: che debbo pensare di un magistrato che gioca a carte e fa debiti? Quanto alle sue dichiarazioni, sono reticenti. Oggi dice: ero sconvolto. Lui sconvolto? Ma… Io gli ho posto dieci domande. Non ha ancora risposto. Sapete cosa va dicendo in giro questo signore? Dice: Salvatore Borsellino ha problemi mentali. Dice che sono molto malato e che sono un Caino. Questa del Caino non l’ho ancora capita. L’ho querelato. Mi risulta che sia già stato rinviato a giudizio”.

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