«Fu lo Stato a venirmi a cercare». Le parole che Totò Riina dette agli agenti di polizia penitenziaria del Carcere di Opera e poi riprese nelle conversazioni intercettate tra il boss corleonese e il compagno di detenzione Alberto Lorusso, sono il punto di partenza della requisitoria del pubblico ministero Nino Di Matteo al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Davanti alla corte d’assise di Palermo, che sta vagliando il presunto patto tra pezzi delle istituzioni e cosa nostra negli anni delle stragi, il pm ha ricordato di quella volta che il capomafia, da anni recluso al 41 bis e che poteva parlare solo coi familiari una volta al mese, smentì la ricostruzione ormai data per assodata.
«Riina non immaginava di essere intercettato – ha spiegato Di Matteo – altrimenti non avrebbe discusso di argomenti relativi ai suoi familiari e del suo patrimonio, parlando anche di beni intestati a prestanomi che non sapevamo essere suoi, né avrebbe espressamente minacciato di morte alcuni pm di questo processo. Ci sono momenti in cui Riina nega tutto in conformità alla sua abitudine e momenti in cui si lascia andare a esternazioni importanti». Il pubblico ministero insomma difende la genuinità delle esternazioni di Riina, anche se invita a prestare comunque attenzione, e ribadisce più volte che al padrino corleonese il dibattimento trattativa stava particolarmente a cuore.
Al centro della deposizione c’è appunto lui, il capo dei capi morto recentemente: le sue perplessità nei confronti di Provenzano, il sospetto, che stentava a confidare anche a se stesso, di essere stato tradito da lui e le rivelazioni sugli attentati a magistrati come Rocco Chinnici e Paolo Borsellino. Cenni poi anche ai riferimenti verso Silvio Berlusconi. Qui Di Matteo preferisce citarlo: «”In qualche modo mi cercava, mi ha mandato a questo e mi cercava. Gli abbiamo fatto cadere quattro o cinque volte le antenne e non lo abbiamo fatto più trasmettere. Gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l’ho cercato più”. Nei dialoghi, poi, il boss più volte – ricorda il magistrato – parla dei canali tramite i quali avrebbe potuto contattare Dell’Utri».
Sul famoso papello (l’elenco di richieste che il capomafia di Corleone avrebbe avanzato nei confronti dello Stato per smetterla con le stragi), Di Matteo dice che «non c’è nessuna traccia di manomissione». E il pm più volte minacciato dalla mafia di morte, costretto a viaggiare con la scorta, difende anche il teste più discusso di questo processo. Quel Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, che ha prodotto una mole considerevole di documenti e per i quali, secondo di Matteo, «non c’è mai la prova e soprattutto non c’è un indizio per potere affermare che abbia mai personalmente falsificato uno solo dei documenti che ha consegnato».
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