Sulla miseria dei corsi di comunicazione a Catania

Ho seguito gli sviluppi della discussione suscitata dalla “Lettera aperta su Scienze della Comunicazione a Catania”. Le domande erano serie e le prime repliche mi sono sembrate promettenti. Il preside di Scienze politiche pare apertissimo all’ipotesi di una collaborazione interfacoltà, il preside di Lettere è più cauto ma ugualmente disponibile al confronto, il preside di Lingue avrà sicuramente qualcosa da dire. Del resto occorre dare alle facoltà il tempo di avviare una riflessione nelle sedi appropriate. Queste righe non hanno nessuna pretesa di ufficialità.

Partirò dall’aspetto che mi ha colpito di più: i commenti nei vari forum studenteschi. Temo che tali commenti possano esprimere lo stato della “pubblica opinione” in modo più esplicito del tono, allarmato ma garbato, della lettera aperta. Traspare uno stato d’animo di delusione, mugugni, scoraggiamento generale, che può riassumersi nell’idea: “siamo stati imbrogliati!”. Gli studenti di scienze della comunicazione sarebbero stati attratti da un “logo” alla moda all’interno di facoltà desiderose di incrementare il numero dei propri immatricolati, ma poco interessate allo sviluppo di questo particolare indirizzo di studi. Così si sono trovati dentro corsi di laurea eccessivamente affollati e scarsamente competitivi sul piano nazionale. E ora che iniziano a moltiplicarsi le prime leve di laureati triennali, dove sono gli sbocchi professionali?

Lo so, si potrebbe ignorare una diagnosi così sommaria e impietosa con un’alzata di spalle. In fondo si tratta del solito malcontento che riduce tutto alla contrapposizione tra l’ingenuità e l’innocenza degli studenti e i calcoli machiavellici dei professori: è il ground zero di qualsiasi discussione sulla didattica. Tuttavia vorrei partire proprio da questo livello zero, perché mi pare un’impressione assai diffusa, magari superficiale, ma legittima. E’ vero che gli immatricolati ai corsi di scienze della comunicazione attivati dall’università di Catania sono stati beffati? C’è una risposta a una domanda così drastica?

Io ci provo.

La prima cosa che credo di poter dire è che non trovo nulla di scandaloso nell’aver tentato di misurarsi con la novità dei corsi di laurea della classe 14. Dal punto di vista delle facoltà umanistiche le “scienze della comunicazione”, assieme alle “scienze dei beni culturali”, sono state l’unica importante trasformazione degli ultimi anni. Nella vocazione di queste facoltà, accanto alla ricerca pura, il solo aspetto professionalizzante era la formazione degli insegnanti per le scuole di ogni ordine e grado. C’è voluto molto tempo perché un ambito come quello della cura e della valorizzazione del patrimonio culturale, di indiscutibile importanza benché particolarmente trascurato in Italia, venisse preso a carico dalle università. Oggi non esiste più nessuna facoltà di Lettere che non preveda un corso di questo tipo; basato sull’ibridazione tra discipline tradizionali, come la storia dell’arte, l’archeologia o l’archivistica, con insegnamenti nuovi o presi a prestito dal repertorio delle facoltà scientifiche, giuridiche ed economiche.

Non sempre il cocktail risulta di buona fattura. L’allarme che spinge a privilegiare una solida formazione di base rispetto a un’eccessiva parcellizzazione delle materie specialistiche è generalizzato e gli appelli alla restaurazione riscuotono sempre più simpatia. Sta di fatto però che nessuno mette più in discussione la legittimità delle “scienze dei beni culturali”. Lo scetticismo su “scienze della comunicazione”, invece, è ancora maggioritario; sia perché il ventaglio interdisciplinare si presenta ancora più ampio, sia perché il mondo della comunicazione non è facilmente sintetizzabile in professionalità e capacità ben precise, sia per l’improvvisazione che ha caratterizzato la straordinaria inflazione di questi corsi in Italia. Il timore di essere sopraffatti e distrutti dalle orde barbariche di massmediologi improvvisati non è privo di fondamento. Ma è bene ricordare che “non dobbiamo partire dalle buone vecchie cose ma dalle cattive cose nuove” (come raccomandava Bertolt Brecht in una lettera all’amico Walter Benjamin). Quindi non possiamo limitarci a discutere se dovevamo o non dovevamo impegnarci su scienze della comunicazione, o se, facendolo, abbiamo perso l’anima; ma andare a vedere come si è lavorato e cosa si intende fare.

Vorrei aggiungere un’altra considerazione generale. Per calibrare l’offerta didattica, le facoltà devono tenere conto del rapporto col territorio. Così si dice. Non posso fare a meno di nascondere la mia antipatia nei confronti di questo lemma generico: “territorio”. Considero l’abuso che se ne fa una vera malattia.  Ma assumiamo “territorio“ come sinonimo del tessuto e della cultura imprenditoriale prevalente. Benvenuto il confronto col mondo delle imprese e della pubblica amministrazione, a patto di essere consapevoli che la relazione che viene a istaurarsi tra università e “territorio” equivale spesso a una scommessa e a una sfida. Per i corsi di comunicazione, chiamati a misurarsi con un mercato del lavoro in rapida evoluzione, ciò è vero un po’ dappertutto. Ma è vero a più forte ragione a Catania e in Sicilia, un’area geografica nella quale la maggior parte del mondo imprenditoriale appare poco innamorata del proprio futuro, in cui sussistono forti posizioni di monopolio che rendono asfittico il mondo dell’editoria e dell’informazione contribuendo a svalutare le competenze professionali e i tentativi di innovazione. Questa è una “periferia” in cui l’università non può andare sempre all’unisono col mondo delle imprese, della politica, della pubblica amministrazione. L’università non può permettersi di essere arretrata: grazie alla sua capacità di collegamento nazionale e internazionale, essa deve mostrarsi in grado di creare quello che non c’è ancora nel “territorio”.

Adesso dovremmo avere la pazienza di esaminare il modo in cui l’ateneo ha gestito i nuovi corsi di laurea in scienze della comunicazione. Lo ha fatto, innanzi tutto, in ordine sparso: all’interno di tre diverse facoltà che non hanno ricercato alcuna occasione di confronto sull’esperienza didattica che si stava compiendo. Lo ha fatto coinvolgendo un numero di studenti davvero enorme. Sommando tra loro i cinquemila iscritti ai corsi di scienze della comunicazione – l’8% del totale degli studenti dell’università di Catania – si ha una quota superiore a quella di molte facoltà.  Lo ha fatto ricorrendo massicciamente a insegnamenti a contratto con esperti esterni proprio per le materie di base. Lo ha fatto valorizzando le “altre attività” attraverso la creazione di nuove strutture di coordinamento (la.mu.s.a. – laboratorio multimediale di sperimentazione audiovisiva a Lettere, Medialab a Lingue).

Ci sono stati aspetti positivi e negativi. Positivo, senza dubbio, è il clima di coinvolgimento della parte più attiva degli studenti che si è realizzato attraverso i laboratori didattici e le iniziative ad essi collegate. Mi riferisco soprattutto alla “comunità” studentesca dei Benedettini. Il grado di partecipazione degli studenti di Lettere e Lingue ad alcune delle attività culturali promosse dalle facoltà, la vivacità dei siti web, la produzione di lavori audiovisivi di qualità e tutte le altre iniziative studentesche, più o meno autonome, che abbiamo visto germogliare negli ultimi due anni sarebbero state inimmaginabili fino a poco tempo fa. Credo che ciò sia un risultato, anche se non esclusivo, dell’esistenza dei corsi in comunicazione e della voglia di fare di alcuni dei nuovi docenti a contratto.

Ma è indispensabile elencare gli aspetti negativi che, a mio parere, rischiano di prevalere nettamente. Lo voglio dire senza mezzi termini: la mancata attuazione di un tetto alle iscrizioni per i corsi di laurea triennale in scienze della comunicazione – misura che richiederebbe una consultazione e un accordo tra le facoltà – mi pare un atteggiamento irresponsabile. Rischiamo di trasformare i nostri attuali cinquemila studenti, e quelli che si aggiungeranno, nei figli di una grande illusione. Non solo e non tanto in vista degli sbocchi professionali (giacché, se il solo parametro fosse questo, il discorso potrebbe applicarsi a molti altri corsi di laurea), ma perché le nostre facoltà non possiedono il patrimonio, né di docenti, né di strutture, indispensabile per offrire corsi sufficientemente qualificati a un numero così ampio di iscritti. Partendo dal fatto che scienze della comunicazione è un corso di laurea che richiederebbe un impegno molto denso di esercitazioni guidate e di attività didattiche collaterali, l’attuale situazione è diventata intollerabile.

In secondo luogo mi pare fondata la considerazione del preside Iachello, il quale osserva che ciascuna facoltà ha modellando la tabella ministeriale della classe 14 sulla propria specificità culturale. Quale che sia il grado di collaborazione che le facoltà vorranno adottare, è logico che tali specificità dovranno mantenersi in curricula distinti, senza attentato per le “valenze identitarie”. Rimane però il problema degli insegnamenti di base o caratterizzanti, relativi alle teorie e alle tecniche della comunicazione, attualmente affidati a docenti a contratto. L’apporto di alcuni professionisti esterni è indispensabile per arricchire l’offerta didattica a scienze della comunicazione. Ma siamo davvero convinti di poter procedere all’infinito unicamente con docenti a contratto? Retribuiti, oltretutto, in maniera simbolica? Come assicurare la copertura di alcuni dei nuovi settori disciplinari con docenti di ruolo? Il preside Iachello sa benissimo che, nella programmazione delle carriere e dei nuovi accessi, le facoltà sono condizionate dalla forza di inerzia dei settori disciplinari già esistenti. Come riparare, e con quali risorse, se attraverso la collaborazione interfacoltà la questione non diventerà un problema di ateneo?

Con tutto ciò non voglio pronunciarmi sulle lauree interfacoltà. Tanto invalicabile sembra il richiamo “identitario” agli orticelli delle rispettive facoltà. Se si avesse voglia di collaborare, se le intenzioni fossero buone, cosa impedirebbe di unificare fin d’ora, o almeno coordinare, l’offerta delle “altre attività” – i laboratori e la sperimentazione didattica collegata a scienze della comunicazione – consentendo la libera partecipazione degli studenti dei diversi corsi di laurea senza frapporre artificiose barriere e bandiere?

E’ stupido, talvolta, appellarsi al buon senso. Non sempre il buon senso si concilia con gli arcana imperii. Perciò, in definitiva, non so che rispondere alla domanda iniziale. I corsi di scienze della comunicazione, almeno nelle intenzioni, non sono stati una beffa. Sta adesso alle facoltà impedire che lo diventino. So per certo che gli sforzi “creativi” per promuovere il settore dei laboratori, della sperimentazione didattica, delle “altre attività”, delle iniziative culturali, se non vengono coordinati con i corsi istituzionali e inquadrati in un coerente progetto, possono trasformarsi in un’effimera vetrina e da soli non bastano. Non mancherò di trarne le conseguenze anche a livello del mio impegno personale.


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