Battuto il Melfi, il Catania si affida ai calcoli degli scontri diretti per capire quante speranze ha di rimanere in Lega Pro. Anni fa, sarebbe bastata una semplice salvezza per riversarsi tutti in via Etnea. Ma adesso il vecchio Cibali è vuoto di gente e di passione
Stadio Massimino, malinconia di fine stagione Quanto è triste il calcio se non si può far festa
E insomma, anche quest’anno, per capire se il Catania riuscirà a conquistare la salvezza, bisognerà aspettare proprio l’ultima giornata. Magari dando un occhio a quel che succede in campo e un orecchio a quello che combinano gli avversari. Magari compilando tabelle fatte di scontri diretti, combinazioni di risultati, ipotesi incrociate e calcoli ostici per chi, come molti di noi, si intende poco di matematica.
Lo abbiamo fatto tante volte, non è certo una novità. Solo che in genere, mentre con la mente e con la penna seguivamo l’incrociarsi dei risultati sul nostro e sugli altri campi, il cuore e le gambe correvano già verso il prato del nostro stadio. Dove sapevamo che saremmo scesi, se tutto fosse andato bene, per l’unica lecita invasione di campo dell’intero campionato. Finito tutto, ci saremmo riversati lungo quei cento metri di verde, avremmo misurato con gli occhi e con i passi quanto è grande davvero una porta, avremmo strappato qualche ciuffo d’erba o sforbiciato di nascosto la maglia di una rete, per portarci a casa un pezzo della nostra squadra, per riempire con il profumo di quella festa il vuoto di calcio dell’estate che cominciava.
Ecco, appunto, avremmo fatto festa. E magari l’avremmo prolungata lungo via Etnea, incrociando il nostro sorriso con quelli di migliaia di sconosciuti fratelli, ballando alla musica di un coro da stadio o al ritmo dei bonghi suonati da qualche tifoso arrivato dal Senegal, o saremmo andati a sciogliere l’afa dell’estate in qualche fontana, o avremmo colorato piazza Europa di rosso e d’azzurro. Lo abbiamo fatto tante volte, e non era poi così importante che si giocasse in serie A o in qualche infimo campionato in cui eravamo stati retrocessi con poche colpe e nessuna vergogna. La salvezza era una festa, la conclusione felice di una stagione portava con sé, assieme alla malinconia di un tramonto, l’attesa del nuovo giorno che sarebbe presto spuntato.
E poi, siamo sinceri, se del caso, avrebbe fatto festa anche la nostra cattiveria. Se, per dire, mentre le cose finivano bene per noi, fossero finite male al Palermo, non ci saremmo fatti scappare l’occasione di sfottere i cugini rosanero, di godere delle loro disgrazie sportive esattamente come loro avrebbero goduto delle nostre. E non ci saremmo sentiti in colpa per questo sfogo di cattiveria, anzi ne avremmo conservato il ricordo tra le cose dolci dell’anno appena passato.
Da quanto tempo non la facciamo, invece, una festa? E per quanto tempo ancora non ne faremo? Di certo, quest’anno, se pure tutto finisse per il meglio, finirebbe per il meglio in uno stadio vuoto di gente e di passione. Di certo, ci sarebbe poco da rallegrarsi se la nostra squadra raggiungesse all’ultima giornata il faticoso obiettivo di restare in Lega Pro, se sfuggisse alla vergogna della quarta serie, se riuscisse ad evitare che Catania-Gela, il prossimo anno, non sia soltanto il nome di una strada, ma diventi l’etichetta triste di quel che ci resta del concetto di derby.
Non sarà festa, comunque finisca. Perché, proseguendo le cose come ora stanno andando, non riusciremmo a vedere la luce di una stagione nuova oltre il tramonto di questa. Che non ci ha regalato una sola soddisfazione sportiva, e nemmeno il sollievo di vedere le sorti del Catania dissociarsi da quelle della sua proprietà. Proprietà che negli ultimi anni ci ha trascinati nella vergogna delle sue vicende giudiziarie, e che peraltro – come abbiamo appena saputo – ha profumatamente remunerato il secondo responsabile del disastro di questi ultimi anni. Premiandone l’improduttività come a volte fa lo Stato con i suoi boiardi, ma come un’azienda privata gestita con un briciolo di buon senso non avrebbe avuto ragione di fare.
E siccome quest’anno non ci sarà festa, vorrei rivolgere un invito ai cugini rosanero. Sapete che vi dico, non retrocedete. Statevene pure in serie A. No, non lo dico perché all’improvviso mi sia nata una qualche simpatia per la vostra squadra. Ma solo perché il Palermo calcio – nella prospettiva di me tifoso, si intende – trova la propria ragion d’essere semplicemente nel derby che ne fa il nostro più accanito e irriducibile avversario. Nelle imbarcate di gol che ci ha abituato a prendere da noi nelle ultime stagioni. Nella strabiliante capacità di farsi segnare da centrocampo sul campo della Favorita una rete che nessuno dimenticherà mai. Nel gusto di una partita, insomma, che l’anno prossimo non ci sarebbe neppure se il Palermo ci mettesse tutta la buona volontà. Cosa che Zamparini e compagnia quest’anno, bisogna riconoscerlo, hanno fatto.
Retrocedete un altr’anno, magari. Sempre ammesso che il vostro retrocedere non sia fine a se stesso, ma significhi venirci incontro mentre noi cominciamo a rialzarci. Sempre ammesso che il nuovo presidente del Catania, il romano Davide Franco – subentrato al palermitano Nicolò Micena – riesca a fare l’unica cosa che ci si aspetterebbe da lui: trovare qualcuno disposto a comprare la squadra, fissare un prezzo sensato e salvarci dal fallimento. Lo ha fatto in altre squadre, nella sua lunga carriera. Chissà se potrà farlo anche da noi.