Siracusa, difficile il recupero della nave sommersa Legambiente: «Vigilare su 100 tonnellate idrocarburi»

La Mustafa Kan si muove. Lentamente. Ha oltrepassato Augusta in direzione Nord, continuando ad allontanarsi dalle coste siciliane. Continuamente monitorata dai mezzi della Guardia costiera di Catania e da quelli anti-inquinanti. La nave cargo turca, da circa settemila tonnellate e lunga 136 metri, che è semi affondata tre giorni fa a circa venti miglia a largo di Avola, nel Siracusano, non desta preoccupazioni ai soccorritori, almeno per quanto riguarda il rischio di inquinamento del mare. Trasportava ottomila tonnellate di fosfato di ammonio, un fertilizzante considerato non inquinante. 

«È sommersa in gran parte ma non del tutto e nelle ultime 36 ore è rimasta stabile – spiega Fabrizio Colombo, comandante della Guardia costiera di Catania, che coordina le operazioni -. È continuamente monitorata dai nostri mezzi per garantire la sicurezza della navigazione delle altre navi». Secondo quanto riferito dai membri dell’equipaggio, 16 persone trasferite a Siracusa, il motivo dell’affondamento sarebbe l’apertura di una via d’acqua nella sala motori, nonostante la Mustafa Kan sia un’imbarcazione relativamente nuova, essendo operativa dal 2009. «C’è un inchiesta di tipo amministrativo che dovrà accertarlo – sottolinea Colombo -, per il resto spetta all’armatore verificare la fattibilità del recupero e assicurare che non provochi inquinamento». 

Finora, secondo quanto riferito dalla Guardia costiera, non ci sono segni di inquinamento. «Il fosfato di ammonio non è un prodotto pericoloso in tal senso – continua Colombo -, per quanto riguarda il carburante, ce ne sono 70 tonnellate nei serbatoi e non si registra nessun sversamento. Al momento è tutto sotto controllo». Informazioni che non rassicurano del tutto Legambiente. «Il fosfato di ammonio diventa fonte di nutrimento per le alghe che rischiano di svilupparsi in maniera sproporzionata, riducendo l’ossigeno – spiega Enzo Parisi, referente dell’associazione ambientalista a Siracusa -, questo non è poco, ma obiettivamente non ha niente a che fare con l’inquinamento da idrocarburi». Possibilità, quest’ultima che Parisi non esclude. «Al carburante che si trova nei serbatoi – precisa – vanno aggiunti almeno una decina di tonnellate di oli lubrificanti e qualche tonnellate di prodotti chimici usati come disincrostanti, è il minimo per la manutenzione di una nave di quelle dimensioni. In totale si tratta di un centinaio di tonnellate molto pericolose».

Sostanze che finora non sarebbero finite in mare. «Bisogna vigilare – esorta Parisi – sia adesso che la nave ancora è in parte sopra il livello dell’acqua, sia nel caso affondasse. Vigilare con i mezzi navali e, se non sarà più possibile, con droni che sorvolino quel tratto di mare almeno ogni tre giorni per verificare eventuali bolle di idrocarburi e intervenire prontamente senza che queste si avvicinino alla costa». Per il referente di Legambiente una nave cargo in queste condizioni non è più utilizzabile e il suo futuro passerà nelle mani di un’assicurazione «che risarcirà in parte l’armatore, ma i costi della collettività se li piangerà l’ambiente». Per questo Parisi sottolinea l’urgenza di un intervento del ministero dell’Ambiente che «subito chieda all’assicurazione di sostenere le spese delle operazioni di questi giorni, con personale e mezzi anti inquinamento impiegati, e per i danni sull’ambiente presenti e futuri». 

Infine Legambiente invoca rotte sicure per le navi cargo e le petroliere, che stiano alla larga dalle coste più delicate. «L’incidente alla Mustafa Kan – conclude l’ambientalista – si è verificato a largo della penisola del Plemmirio. Sono pochissime nel Mediterraneo le zone interdette al passaggio di queste navi: lo sono ad esempio lo Stretto di Messina e quello tra Sardegna e Corsica, invece servirebbero delle vere e proprie torri di controllo con la facoltà di indicare un cambio di rotta ai mezzi pericolosi che passano vicino a zone preziose». 


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