Sinfonia di morte tra le calli veneziane

Se l’identità dei due titoli – La morte a Venezia – sembrerebbe ipotizzarne una perfetta corrispondenza, in realtà il racconto lungo di Thomas Mann, scritto nel 1912, e il film di Luchino Visconti( 1971) sono sovrapponibili soltanto ad un livello profondo.
Nonostante la polisemia sia un tratto che emerge chiaramente fin dalle prime battute, il nucleo narrativo principale è costituito dall’incrocio tra la dimensione epocale ed esistenziale. Quella che ad uno sguardo distratto potrebbe apparire la storia di un amore tardivo e omosessuale si rivela essere il racconto di una duplice fine: a sprofondare in un abisso non è soltanto lo scrittore cinquantenne Gustav Von Aschenbach, ma l’intera sua epoca con i suoi finti valori borghesi.

Questo sdoppiamento di punti di vista – lo sguardo oggettivo, distaccato e ironico, del narratore e quello soggettivo del protagonista – viene mantenuto, anzi esaltato, attraverso sapienti movimenti di macchina e del carrello ottico nella trasposizione cinematografica di Visconti, nonostante vengano compiuti diversi cambiamenti.

Ma è davvero una storia d’amore, anche se non convenzionale? I due protagonisti non si scambiano nemmeno una parola, non interagiscono in alcun modo se non attraverso gli sguardi: quelli reali dell’uomo verso il giovane Tadzio, anche lui in vacanza al Lido di Venezia, e quelli del ragazzo che forse sono solo immaginati. Il disfacimento di Gustav parte quindi da una situazione che non vivrà mai, e che tuttavia lo condurrà alla morte, nell’atmosfera veneziana ammorbata dal colera, e che con il suo tempo lento, le nebbie dense e i forti odori veicola un senso di sfinimento e di estremo degrado che sembra fare da contraltare alla vicenda del protagonista. E’ come se la vita lì arrivi ad un limite estremo, dal quale non è più possibile tornare indietro.

Il tentativo di Gustav di chiudere in una dimensione morale le sue pulsioni nei confronti di Tadzio sembra quindi più metafora della lotta universale contro l’irrazionalità che alberga dentro ogni individuo, e che è comunque destinata a fallire. Nel suo procedere verso la fine- della sua vita, ma soprattutto della sua concezione dell’arte e della bellezza fino a quel momento intesa come al di sopra delle pulsioni carnali- rimette in discussione tutto il suo percorso artistico ed esistenziale e si rende conto di quanto la sua esistenza sia stata un inganno.

Il regista, pur non snaturando ma anzi approfondendo il pensiero di Mann, e tenendone in conto il percorso esistenziale e narrativo( insistenti gli echi del “Doctor Faustus”, soprattutto per quanto riguarda la natura “demoniaca” dell’arte, e della musica in particolare), apporta dei sostanziali cambiamenti dovuti in parte alla differenza di struttura ritmica tra i due stili.

Innanzitutto il personaggio di Gustav è un musicista nel film: si fa quindi più forte la “presenza” di Gustav Mahler, che già nel racconto aveva prestato il suo volto- nonché il nome- al protagonista, senza contare il fatto che proprio la musica di Mahler diventa il corpo stesso del film, vive dentro Aschenbach fino a diventare carne delle sue emozioni. Il film è costruito per cadenze musicali, per ritmi, ed è il complesso musicale di rapporti a collegare scene, situazioni che non avrebbero senso se seguissero una successione spazio-temporale. Il quarto movimento- l’adagetto- della quinta sinfonia di Mahler diventa il motivo di fondo, e gli archi e le arpe e i personaggi sono tutti elementi di una sinfonia che avviene nella fantasia di Gustav, e che lo accompagneranno nel suo destino di morte che deve necessariamente compiersi. Il trascinamento sonoro verso il disfacimento finirà, infatti, solo alla fine del film, dove s’interromperanno anche le inquadrature molto strette, espedienti usati per l’esternazione di un’atmosfera nostalgica, memoriale.

Ed ancora la musica sembra suggerire cosa inevitabilmente avverrà: in spiaggia, in un momento di ispirazione, il musicista compone parte di una sua opera- la terza sinfonia di Mahler- che riporta alcuni versi di Nietzsche che suonano come premonitori del proprio destino(” O uomo,fa attenzione! Che cosa dice la mezzanotte fonda?<< Io dormivo, dormivo…Mi sono svegliato da un sogno profondo…Il mondo è profondo, e più profondo che non pensasse il giorno. Profondo è il suo dolore… Il piacere- più profondo ancora del dolore: il dolore dice: passa! Ma ogni piacere vuole eternità…Vuole profonda, profonda eternità>>”).

Oltre all’introduzione di alcuni flashback ( dove non mancano riferimenti alla biografia di Mahler) per supplire alla mancanza dei monologhi ampiamente presenti nel libro di Mann e spiegare il progressivo declino del fragile Gustav, un fondamentale cambiamento rispetto al racconto si ha nella parte iniziale. Il racconto comincia infatti con l’incontro tra l’artista e uno straniero nei pressi del cimitero: anche qui, soltanto uno sguardo. Uno sguardo che gl’infonde un desiderio di lontananza, e che lo induce a partire per Venezia; il film, invece, si apre già con il viaggio di Gustav sul battello. Si è trattato di una necessità dovuta ad esigenze tecniche: il linguaggio cinematografico ha un ritmo serrato, non può indugiare come la scrittura.

La decisione della partenza viene però motivata altrettanto fortemente di quanto non avviene nel racconto grazie all’introduzione del personaggio di Alfred, amico ed alter ego del musicista, con il quale si crea un conflitto che consente di capire i contrasti interiori- dell’uomo e dell’artista-, e che alla fine, con la sua crudeltà, gli mostrerà il fallimento che si è rivelata essere la sua vita e la sua concezione dell’arte. L’uomo e l’artista sono, a quel punto, una cosa sola: hanno toccato il fondo insieme.

Anche il quarto protagonista della storia( oltre a Von Aschenbach, Tadzio e Venezia stessa), la morte, dipinta nel libro con pochi tratti, assume nel film un tono diverso, sontuoso, enfatico. Ciò avviene perché proprio nel finale c’è un totale coinvolgimento e identificazione del regista nel personaggio di Gustav: qui Visconti ha rappresentato se stesso più che in ogni altro film.

Nell’ultima immagine, con la tinta che cola sul viso come sangue nero, e con il gesto di Tadzio che indica un punto lontano, sembra esserci un riscatto di Aschenbach, come se recuperasse con la morte la sua moralità, e l’immagine del ragazzo si sublimasse in un’immagine nobile, di angelo della morte, finalmente aldilà di qualsiasi ambiguità.


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