Un mio amico insegnante è entrato di ruolo a 58 anni. Fino a quel momento, ogni anno, per trentacinque anni, per lui l’inizio dell’anno scolastico è stato un devastante alternarsi di sentimenti di speranza e di sconforto, euforia e smarrimento.
L’avvicinarsi di settembre per un disoccupato o per chi ha un lavoro precario a tempo indeterminato è uno dei momenti più difficili. Anno dopo anno, ad agosto, fingi di essere in ferie come gli altri: vai al mare, leggi un libro allungandoti sulla sdraio, fai perfino una gita di un giorno. Poi gli altri cominciano a pensare che “uff, si torna al lavoro” e tu non hai mai smesso di pensare – neanche quando provavi a concentrarti sulla trama del più intrigante dei polizieschi – che anche per quest’anno settembre sarà come la ceralacca sul tuo certificato di inutilità. Facciamo al contrario. Ai maniaci sessuali travestiti da bacchettoni che oggi invocano la riapertura delle case chiuse, contrapponiamo invece la chiusura del mese aperto, il più aperto, il più soggetto agli spifferi e perfino ai tornado esistenziali che ti risucchiano e ti scagliano tramortito a chilometri di distanza.
Chiudiamolo settembre, chiudiamolo per disoccupazione, così ci eviteremo tutte le minchiate sulla ripresa che, nel gioco delle parti, ci riproporranno politici servi dei padroni, economisti stipendiati dalla finanza internazionale, sindacalisti embedded: la ripresa del lavoro, la ripresa del mercato, la ripresa della ripresa, la ripresa – perfino – dell’autunno caldo. Che non ci sarà, come non c’è stato gli anni scorsi, perché un popolo sfiancato come un condannato rinchiuso dentro una vergine di Norimberga non ce l’ha più la forza di lottare, ma ha un solo desiderio: che il supplizio finisca prima possibile. Preferibilmente prima che arrivi settembre.
Patrizia Maltese
[Leggi il post originale sul blog dell’autrice. Foto di deborah|silverbees]
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