S.G. La Punta, abisso tra immagini e parole «Facendo silenzio, qualcosa capiremmo»

CTzen detesta il buonismo. Ma ha un cuore e una testa e li usa. Oggi la penna di Sergio Mangiameli racconta quel che molti pensiamo ma che nessuno dice: la differenza stridente tra percezione delle immagini e delle parole. Doniamo ai lettori la sua riflessione, intrisa di pudore, lasciando che si facciano liberamente un’opinione. Con un’avvertenza: è un pezzo forte, crudo, a tratti lacerante. Sconsigliamo la lettura a chi è particolarmente sensibile e fatica a reggere l’urto di un racconto così intenso. In ogni caso, sono pur sempre parole.

 

E’ un giorno qualunque di un’estate come tante, col caldo opprimente e le follie che si credono indimenticabili. I raggi entrano nella stanza da letto e rimangono sospesi tra il sonno svegliato di una ragazzina e la veglia impazzita di suo padre. Si ritirano, non possono illuminare quello che succede: il coltello spinto a forza nella carne, tirato con energia e spinto ancora, le urla senza freno della ragazzina svegliata dal sonno al terrore. Il coltello cerca altra carne per affondare ancora. «Papà, no!», implora la ragazzina di dodici anni a suo padre, che la sta ammazzando. Forse il dolore è minimo di fronte allo sconvolgimento della scena, ma il sangue che esce a fiotti non dà tempo alla bambina di pensare a niente. Le deve sembrare un incubo, il suo peggiore, perché non riuscirà più a svegliarsi. Il freddo la copre e negli occhi le rimane il dubbio di non essere stata amata e chissà, forse di meritarsi tutto questo: se lo fa papà… Ma è solo un incubo, perché il sonno è tornato e adesso c’è anche sua sorella più grande che viene colpita da papà. Ha ragione ancora? Il sangue è ovunque, oltre ogni immaginazione. Si guardano le due sorelline, poi una va via presa in braccio dai raggi di Sole, che non resistono a tanta follia. La portano lontano nei cieli della pace, a dirle e a convincerla che è stato solo un brutto sogno e che papà le vuole bene, e che bisogna avere molta pietà per lui, per quel che rimarrà di lui. Le dicono che è tutto a posto, di non aver paura, che l’uomo si ripete e tutto questo è già esistito in altri giorni qualunque, anche di estati così pesanti e poi dimenticate dagli stessi uomini.

Il fatto che il padre poi si pianti lo stesso coltello nel proprio stomaco e non muoia, che la madre fuori casa possa sentire il bisogno di strapparsi le membra per sopportare meglio questo inferno di dolore all’improvviso e contro natura, ha la stessa importanza della spudoratezza consumistica di un sito d’informazione cittadino, che pubblica dopo poche ore la foto della ragazzina uccisa. Perché se il limite legale sul diritto-divieto di pubblicazione diventa incerto (c’è la foto su una piattaforma sociale nel web e la sorella maggiore è in vita), il bordo della morale che imporrebbe il rispetto della morte violenta di una minorenne in una storia del genere, è finito sotto i piedi in onore al dio Clic, che chiama folle di discepoli della visione e della pubblicità.

Di questa follia omicida, la città ne è sconvolta. Amici giornalisti piangono e chiedono conforto per riuscire a raccontare il fatto con onestà, senza il trasporto di essere genitori anch’essi di figli di dodici anni. Perché quella ragazzina aveva fiducia nel suo papà. Perché l’ha tradita, l’ha spenta. Perché quell’uomo ha dilaniato le vite di altre persone, compresa la propria. Perché è una mattina d’agosto e i ragazzini sono in vacanza scolastica. Perché, dopo tutto questo, continuare per chi rimane è infernale quanto il fatto in sé. E perché non c’è rimedio. Dico a una collega che forse avrei scritto due righe, ma non adesso. Aspetto che venga sera sul caldo che rimane comunque incollato a questa realtà.

Poi la musica di Piovani inizia, le dita sul piano vanno a memoria, senza spartito per tutto il concerto. L’anfiteatro è pieno. Mia figlia di dodici anni è trasportata da quest’appuntamento storico con la musica italiana – a cinque metri, sente parlare Nicola Piovani di Fellini, De Andrè, Vincenzo Cerami, Benigni. Ma è contagiata dalla batteria, prende nota del nome del batterista: Cristian Marini. S’illuminano i suoi occhi azzurri, e io non sento più caldo né la pesantezza di stare. La vita è bella mi commuove e mi lascio andare a far brillare due lacrime. Ma non mi vede nessuno. Poi il Maestro fa una cosa inaspettata, prende il microfono e spiega quello che andrà a suonare subito dopo. «Mi è andato bene l’inizio, forse meglio lo sviluppo – racconta con divertimento – ma poi bisogna chiudere non con una semplice fine. Come sosteneva Shakespeare, ci vuole un finale, per chiudere. E questo, amici miei, vi confesso che non mi è mai venuto per questa composizione. L’ultima nota è un mi lungo, lunghissimo, che si perde nell’aria e che ognuno di voi potrà finire come vorrà, a proprio piacimento. Ve la dedico, si chiama La melodia sospesa».

Il clarino di Marina Cesari alla fine è da solo, mentre libera questa nota che rimane a un dito davanti ai nostri occhi, sospesa davanti a tutta la nostra immaginazione di uomini. Quel che ne faremo, sarà la nostra storia, pessima o spettacolare, insignificante o coraggiosa. Di questo, avremo ancora modo di spiegarcelo dopo una sera come questa, dopo una vita come questa, noi uomini che tutto possiamo. Anche essere artisti di sconvolgente bravura – come i cinque musicisti di stasera –, e fare del proprio talento il prezioso antidoto alla disperazione di rimanere uomini. Fosse solo perché fa vibrare le corde profonde di emozione e fa accendere la passione per questa nostra storia sospesa, l’arte sarebbe abbastanza per non poterne fare a meno.

E allora, quando alla fine, Piovani sceglie La voce della luna come finale del suo meraviglioso concerto, preceduta dall’ultima frase che Roberto Benigni recita in un campo pieno di rane che gracidano – «Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa capiremmo» –, io alzo lo sguardo al cielo e per qualche attimo anche le stelle, non le ho viste brillare più.

[Foto di Rino Savastano]


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