Romanzo a puntate, la settima parte Il racconto degli occhi sulla terza notte

Racconto dell’occhio destro; terza notte.

La fanciulla contemplava le sue braccia secche: minuscole venuzze le percorrevano; nel frattempo passeggiava lungo il pioppeto.

Lì, un giorno, vide il pittore: pelle olivastra su sfondo grigio.

Sarebbe potuto essere un ritratto egli stesso, ma aveva dei tratti incredibilmente sfuggenti. Così la fanciulla tornò a guardarlo; settimana dopo settimana.

Rimaneva ore ed ore a osservarlo. Non era attirata dai dipinti che il pittore realizzava, cercava, piuttosto, di cogliere il segreto del suo volto: era cangiante, magmatico.

Passavano pochi istanti dall’attimo in cui lo lasciava e già non ricordava più nulla del suo naso, della sua fronte, della sua mano. La affascinava il fatto di non riuscire a farlo riaffiorare nella memoria; era diventata una tappa obbligatoria della sua passeggiata, fermarsi, e piantarsi di fronte all’artista.

Quest’ultimo sentiva su di sé gli occhi di qualcuno, ma non aveva il coraggio di alzare il capo; aveva la certezza che, se si fosse girato a ricambiare lo sguardo, non avrebbe potuto più dipingere come sapeva. Era ormai un pittore affermato. L’essenza della sua opera si basava sulla capacità di dar vita sempre a uno stesso soggetto, con lo stesso colore, la stessa forma, le stesse dimensioni.

Un critico importantissimo aveva trovato abbagliante quel modo di fare arte. Tutte le opere dell’artista erano identiche, come se cantassero sempre le stesse gesta del medesimo eroe. Il suo studio era pieno di centinaia di dipinti indistinguibili l’uno dall’altro. Forse era l’aria di quel pioppeto a rendere possibile un simile miracolo.

Ma la ragazza non si curava di ciò, non aveva nemmeno il più lontano sospetto della grande agiatezza e fama del pittore; le importava soltanto di riuscire a imprimere nella propria mente la fisionomia di quell’uomo. Un mattino il pittore non riuscì a resistere, e guardò quella creatura seccagna, ma straordinariamente seducente. Ebbene, sentì quasi seccarglisi il cuore.

Il fatto di essere osservato gli causava violente scosse al petto. La cosa che lo indispettiva di più era la sua pressoché totale incapacità di rivolgerle la parola; e sì che ne aveva avute di storie, anche con ragazze in apparenza molto più temibili di chi gli stava dinanzi: da un lato era onorato dalle attenzioni che la fanciulla gli riservava, dall’altro irritato dall’altrettanta totale indifferenza nei confronti dei dipinti che realizzava: mai l’aveva vista rivolgere un’occhiata alle tele.

Sicuramente non doveva essere un’esperta di arti figurative.

Ella invece si incantava a guardare il viso del pittore perché quello s’era fatto, via via, più interessante: più tormentato e, per qualche segreta ragione, più fresco.

La fanciulla era grata al pittore perché non cercava mai di parlarle: avrebbe faticato non poco per dire qualcosa di sensato. Infatti non era mai stata abituata a dialoghi troppo lunghi. La sua casa era abitata da persone silenziose alle quali bastava comunicare con qualche monosillabo.

Poi un giorno accadde quello che aveva tanto temuto: l’uomo la invitò a guardare i suoi quadri. La fanciulla si avvicinò e rimase turbata. Tutti quei segni erano come un canto funereo e stinto: non c’era passione, non c’era spiritualità, soltanto sabbia. Non avrebbe saputo dire altro: lì c’era sabbia. Di secoli, di mummie, di candelabri.

Il pittore sperava di ricevere un complimento, ma si accorse subito che la sua opera non le fu gradita; gli parve di scorgere in lei perfino del raccapriccio.

Egli cercò di imbastire un discorso, di intavolare una discussione, ma la sua interlocutrice era già lontana.

Il giorno dopo la fanciulla non si presentò.

Il secondo giorno in cui non arrivò il pittore comprese che avrebbe potuto perderla per sempre, se non avesse agito in fretta. Ma non sapeva dove ella abitasse.

Il terzo giorno tornò, ed egli le propose di ritrarla.

La dipinse con tutto l’amore di cui era capace.

Gli sembrò la sua tela più riuscita.

La fanciulla si avvicinò, intimorita, per ammirarsi.

D’un tratto vide che quell’opera assomigliava a tutte le altre. Era ancora lo stesso sputo di sabbia.

Sentì il proprio dolore conficcarsi fino all’ultimo cerchio del midollo.

Poi si sbriciolò ai piedi del pittore.

Racconto dell’occhio sinistro: terza notte.

La sabbia trascinò con sé una cipolla, un carciofo, e del vino. La gente si stupiva nel veder passare quelle stranezze; ma i meno schizzinosi si chinavano, davano un bel morso alla cipolla, e ringraziavano.

Poi la sabbia cominciò a precipitare dal cielo; e lasciava cadere conchiglie, ippocampi e murene.

I vecchietti si facevano attorno ai mucchi di sabbia, e iniziavano a raccontare della loro giovinezza: ogniqualvolta narravano un episodio in cui avevano rubato della marmellata, si vedeva una ferita gelatinosa scivolare da una delle collinette di granelli.

L’anziano che aveva raccontato l’aneddoto assaggiava quel grumo rossastro, e iniziava a piangere in silenzio.

Ogniqualvota i vecchietti cantavano le filastrocche della loro adolescenza: ecco che la sabbia diventava musica e si depositava sui loro occhi spenti. Per un periodo si videro decine di teste canute a fare da corona a quegli strani altari di rena.

Successivamente i mucchietti pieni di cose, emozioni, regali, magie, si spostarono, e si videro donne farglisi intorno. Le donne pensavano ai figli che non avevano avuto ed ecco si sentiva un vagito. Le donne pensavano ai mariti morti in guerra, e spuntavano elmetti da quel giallume di grani.

E le donne ballavano in cerchio al suono di una nostalgia lancinante, col berretto in testa e la testa sul collo.

Fino a quando l’aria non era di nuovo pulita.

Fino a quando la sabbia sarebbe svanita.

[Illustrazione di Francesco Guarino]


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