Restano in carcere Alfonso Tumbarello e Andrea Bonafede. Il medico di Campobello di Mazara, nel Trapanese, che ha curato per due anni durante la latitanza il boss stragista Matteo Messina Denaro, e il cugino e omonimo del geometra che gli ha prestato l’identità. Il tribunale del Riesame di Palermo, accogliendo le richieste dei pubblici ministeri Piero Padova e Gianluca De Leo e dell’aggiunto Paolo Guido ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai legali dei due indagati. Tumbarello è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e falso. Per Bonafede, invece, le accuse sono di favoreggiamento e procurata inosservanza della pena aggravati dal metodo mafioso. Secondo i pm, Bonafede si sarebbe occupato di ritirare le prescrizioni di farmaci ed esami clinici fatti da Tumbarello a nome del cugino, di consegnare al medico la documentazione sanitaria che di volta in volta il capo riceveva durante le cure, contribuendo così a mantenere segreta la reale identità del paziente e consentendogli di proseguire la latitanza durata trent’anni e finita con la cattura del 16 gennaio nella clinica privata La Maddalena di Palermo.
Tumbarello, invece, avrebbe assicurato a Messina Denaro l’accesso alle cure del servizio sanitario nazionale attraverso un percorso terapeutico durato oltre due anni, con più di un centinaio di prescrizioni sanitarie e di analisi (o richieste di ricovero) intestate falsamente al geometra Andrea Bonafede, mentre in realtà a beneficiarne era il boss, assistito personalmente e curato dal dottore. Tumbarello avrebbe così garantito a Messina Denaro non solo le prestazioni necessarie per le gravi patologie di cui soffriva (il tumore al colon), ma anche la riservatezza sulla sua reale identità. Il nome del medico era spuntato anche nella vicenda che coinvolse l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, condannato per traffico di droga e protagonista di un lungo carteggio con Messina Denaro. Vaccarino si era rivolto a Tumbarello per incontrare il fratello di Messina Denaro, Salvatore. L’incontro si svolse nello studio del dottore. I legali dei due indagati hanno sostenuto che i loro assistiti non erano a conoscenza della vera identità del paziente.
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