Randazzo 17 giugno 1945: una strage “premeditata”

PER NON DIMENTICARE E PER RIAPPROPRIARCI DELLA NOSTRA STORIA

Oggi è l’anniversario della morte di Antonio CANEPA, docente dell’Università di Catania, che con lo pseudonimo di “MARIO TURRI” fu il primo Comandante dell’EVIS,  assassinato in circostanze oscure nella cosiddetta strage di Murazzu Ruttu nel 1945. Un personaggio chiave della storia siciliana del dopoguerra, sul quale, però si sa ancora poco. Vi proponiamo un suo ritratto a cura  del prof Salvatore Musumeci, leader del MIS.

di Salvatore Musumeci

Lo scontro tra carabinieri ed Evis, a Murazzu Ruttu e il giallo del sopravvissuto nella Sicilia “inquieta” gli anni Quaranta. Fiumi d’inchiostro hanno rievocato le vicende del separatismo post-bellico, sul piano storico, dinamico e cronologico, eppure molte zone d’ombra avvolgono l’eccidio che causò la morte di Antonio Canepa, comandante dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), e dei giovani evisti Rosano e Lo Giudice. Partendo da una ricostruzione realizzata da Lino Buscemi (pubblicata su Repubblica, sabato 25 ottobre 2008), ed integrandola con testimonianze ed osservazioni di autorevoli studiosi – doppiamente virgolettate –, da noi approfondite, proponiamo una lettura “quasi comparata” delle diverse tesi sulla triste vicenda che, in ogni caso, presenta le peculiari caratteristiche di una strage “premeditata”.

Quale fu, dunque, l’antefatto che portò alla tragedia di Murazzu Ruttu?

Tutto cominciò il 16 giugno 1945, allorché Antonio Canepa giunse alle sei del mattino in località Bolo, nella casa del farmacista Totò Schifani di Cesarò. Lo accompagnava un drappello di giovani studenti universitari catanesi: Carmelo Rosano (22 anni), Giuseppe Amato detto Pippo (21 anni), Antonio Velis (21), Armando Romano detto Nando (21), Giuseppe Lo Giudice (il più giovane del gruppo, studente liceale di appena 18 anni). Duplice lo scopo della visita: si doveva prelevare un motocarro Guzzi e poi effettuare un’azione persuasiva nei confronti dell’allora sindaco di Cesarò, dottor Giuseppe Salmeri, ostile agli indipendentisti. Il gruppetto, stanco, si addormentò e il sindaco ne approfittò per cambiare aria. L’indomani, domenica 17 giugno (erano quasi le 8,00) si diressero verso Francavilla per andare a recuperare armi, nascoste nella proprietà della duchessa zia di Canepa.
La testimonianza resa da Nando Romano, presente a Cesarò, smentisce l’antefatto proposto dal Buscemi: «Un signore, a noi sconosciuto, si presentò al campo, chiedendo di parlare con Canepa la mattina del 16. Entrambi si appartarono per discutere e dopo qualche ora lo sconosciuto ripartì e Canepa rientrò nel suo alloggio. Non seppi mai chi fosse quello sconosciuto, né da dove provenisse, né dove andasse. Tornando dal colloquio con l’ignoto visitatore, Canepa mi passò vicino e mi avvertì di tenermi pronto per il giorno dopo (17 giugno, ndr) alla buon’ora, perché saremmo partiti. Non disse per dove, né perché; né glielo chiesi sapendo bene che non mi avrebbe dato alcuna spiegazione. Precisò soltanto che saremmo partiti alle cinque del mattino successivo. Al momento della partenza Canepa avvertì Amato di fermarsi, in caso di controlli, perché egli disponeva di un salvacondotto… La destinazione era nota solo a Canepa che l’aveva comunicata ad Amato, che stava alla guida… Qualche chilometro prima di Murazzu Ruttu, Amato fermò il motofurgone per darci la possibilità di sgranchirci; ma al momento di ripartire Velis andò ad occupare il posto libero, nella cabina di guida, accanto ad Amato»””.

È certo che Pippo Amato (uno dei superstiti, deceduto a fine anni Novanta del secolo scorso), si mise alla guida del Guzzi 500 targato EN 234, di proprietà del farmacista Schifani, dove nel cassone vi erano le armi di scorta. Descrisse così i fatti: «Al bivio per Randazzo, scorgemmo tre carabinieri (maresciallo Salvatore Rizzotto di 54 anni, vice brigadiere Rosario Cicciò di 48 anni, carabiniere Carmelo Calabrese di 40 anni, ndr.), almeno tanti ne vedemmo. Pensai di rallentare, dando l’impressione di voler fermare. Superando il posto di blocco avrei ridato tutto il gas, in maniera da poter guadagnare la curva a destra per prendere le armi ed aver facile ragione dei militi. Per quanto veloce fosse stata la manovra, uno dei militari ebbe il tempo di sparare un colpo alle ruote. Canepa gridava gesticolando: perché sparate? Che motivo c’è di sparare? A questo punto dietro di me si cominciò a sparare. Chi avesse cominciato – racconta Amato – non saprei dirlo. Il motocarro partì a razzo e raggiunse subito la curva. Allora mi voltai. Il sangue mi si gelò! Nel cassone, lunghi distesi, c’erano solo Canepa e Carmelo Rosano e gli altri non c’erano più. Rosano con un filo di voce, mi disse: portaci all’ospedale».
““«Inspiegabilmente – scrive il giudice Salvatore Riggio Scaduto, sulla rivista del Lions Club di Caltanissetta, n. u. 1994/95 –, Amato dimèntico del particolare del salvacondotto riferito dal Romano, di sua iniziativa, rallentò la marcia, dando l’impressione che volesse fermarsi e, poi invece, accelerò nella speranza, a suo dire, di guadagnare la curva, per coprirsi le spalle, che all’epoca esisteva in quel tratto di strada»””.
Con i feriti a bordo decise di recarsi verso l’ospedale di Randazzo. Arrivato in paese affidò i suoi compagni ad alcune persone e si allontanò di corsa.

Amato – Romano – Velis
Che fine fecero Lo Giudice, Velis e Armando Romano?

Il primo morì quasi subito. Nino Velis, si dileguò nella campagna non prima di aver visto Canepa che sparava contro una mitragliatrice nascosta dietro un muro. Velis, illeso, si salvò e, come afferma Amato, «questa è una colpa che si porterà dietro tutta la vita, come me del resto». Armando Romano, ferito, fu trasportato sopra un mulo all’ospedale di Randazzo dove intanto si spensero, dissanguati, Canepa e il suo vice Carmelo Rosano, privi di assistenza medica.
Piantonato, perché in stato di arresto, il Romano accusando grossi problemi al femore, svenne. A questo punto, suo malgrado, diviene involontario attore di un episodio che possiede tutte le sfumature di un “giallo”: i carabinieri, mostrano fretta. Intendono sbarazzarsi al più presto dei cadaveri di Canepa, Rosano e Lo Giudice. Nell’impellenza di compiere la traslazione delle salme, commettono una grave scorrettezza.
In gran segreto, all’alba del lunedì 18 giugno 1945, Nando Romano, in stato di incoscienza «venne prelevato e trasportato con un camion militare, scortato, su una barella, assieme ai cadaveri dei suoi compagni al cimitero di Giarre, per essere seppelliti».
Giunti a Giarre, i militari imposero al custode del cimitero, Isidoro Privitera, di chiudere i cancelli mentre venivano ricomposte le salme all’interno delle casse (““commissionate personalmente da Concetto Gallo, nel tardo pomeriggio del 17 giugno, ad una falegnameria giarrese, insistente nei pressi di piazza Mons. Alessi””). Il custode eccepì che mancavano i certificati di morte. I carabinieri si giustificarono dicendo che «si trattava di banditi morti in conflitto» da seppellire subito. Il Privitera, tergiversò e insistette almeno perché gli declinassero i nomi degli sfortunati. Fu in questo frangente che si accorse, per puro caso, che uno dei quattro non era morto ed anzi respirava e lo seguiva con lo sguardo. Il custode «credendo ad un fenomeno di rinvenimento da morte apparente», mise in salvo il “morto vivo” Romano, evitandogli di essere calato nella tomba. L’incredibile caso del vivo dato per morto, nel 1969, ad iniziativa del regista Giuseppe Ferrara, fu raccontato nel film ‘Il sasso in bocca’.      
Chi ordinò il suo (e quello degli altri) frettoloso trasferimento nel lontano cimitero di Giarre anziché in quello locale di Randazzo?
Per Romano, passato lo spavento, si aprirono le porte del carcere. Subì un processo, fu condannato e poi amnistiato. Preferì lasciare la Sicilia e si arruolò nella Legione straniera. Dopo alcuni anni rientrò in Italia, rimanendo sempre fedele all’ideale indipendentista.
“«All’ospedale di Randazzo – riferì il “redivivo” –, arrivammo ancora in vita, tranne Giuseppe Lo Giudice morto durante il prolungato tragitto. Ricordo il corridoio dell’ospedale, le barelle affiancate e una grande confusione nel pronto soccorso. Poi fummo trasferiti in corsia in attesa di interventi e di cure. Rosano, ancora vivo, era più distante; io e Canepa eravamo su due barelle affiancate. Canepa, con un filo di voce, mi chiamò per dirmi: “Nando, stavolta ce l’hanno fatta… stavolta hanno vinto!”. Fui l’ultima persona ad ascoltare la voce di Canepa, che poco dopo spirò. Nello stesso pomeriggio morì Rosano». Romano, oggi, è un anziano pensionato di 86 anni, affetto da cecità, che ha “rimosso” i fatti che lo coinvolsero. Socio onorario del Mis, preferisce, in coerenza con il suo conosciuto lungo silenzio, non parlare con nessuno””.
Di ben altro tenore, il rapporto stilato dalla Prefettura di Catania. Quando i carabinieri videro che il motocarro accelerò, uno di loro «esplose un colpo di moschetto in aria a scopo di intimidazione ed il motociclo si fermò». Gli evisti non si mossero, ma uno di loro «sorridendo faceva vedere un pugno di biglietti da mille ammiccando. Il maresciallo Rizzotto, ordinò ai militari di non sparare, ma non aveva fatto in tempo a dirlo che un colpo, sparato da una delle persone a bordo lo feriva, mentre altri colpi, una decina circa, partivano dal motomezzo, attingendo gli altri due carabinieri. Il professor Canepa fu colpito alla coscia sinistra con il conseguente scoppio di una bomba che lo stesso deteneva, evidentemente in tasca. Intanto il motofurgone si fermava e il conducente e l’altro giovane si dileguarono». Nel resoconto prefettizio non c’è alcun accenno a Pippo Amato e al fatto che questi avesse trasportato con il Guzzi i feriti in paese.
““Il Riggio – Cfr. anche Lino Carrubba Antonio Canepa e il separatismo siciliano, Ed. Amando Riesi, 2008 – mette a fuoco le illogicità e le contraddizioni che emersero dal verbale dell’interrogatorio reso, all’indomani, al Capitano Arturo dal maresciallo Rizzotto, il quale alla vista delle armi sul cassone del Guzzi diede ordine ai suoi subalterni di «non sparare, in quanto si rafforzò in me l’idea che si trattasse dell’operazione “prevista”». Inquietante è il riferimento all’operazione “prevista” che pone in essere l’esistenza di un confidente che avrebbe avvisato il maggiore Denti, comandante del Gruppo Carabinieri di Catania, del passaggio degli evisti.
I carabinieri, quindi, sapevano? Sembrerebbe proprio di si
!
E stando all’intervista di un testimone, ancora vivente, C. D. – realizzata dal giurista e storico Vito Vinci e riportata nel suo volume L’urlo della Sicilia, Scuderi Salvatore Editore, 2007 – un terzo gruppo di fuoco organizzato dai “comunisti unitari” sarebbe intervenuto sul luogo della strage.
«Nel pomeriggio del 16 giugno – rivela C. D., ormai, persona politicamente disinteressata –, arrivò a Randazzo una telefonata, con chiamata al posto pubblico, indirizzata ad un mio amico, anch’egli di fede comunista. Personalmente non seppi da dove e da chi provenisse quella telefonata. Seppi, poco dopo, che annunciava, per le prime ore del giorno successivo, 17 giugno, il passaggio di un veicolo con a bordo Canepa ed alcuni suoi uomini, diretto in una località tra Mojo Alcantara e Francavilla. L’ordine era di “fermare il veicolo impedendone il proseguimento”.
Nella confusione politica del tempo, i carabinieri si destreggiavano alla men peggio, ma erano evidenti le loro simpatie verso i separatisti. Noi comunisti, invece, temevamo un’incursione di quest’ultimi coi quali eravamo in forte tensione permanente, per cui avevamo l’interesse di tenerli sotto controllo, con l’aiuto dei contadini che orbitavano attorno al campo di Cesarò e che ci relazionavano sui loro movimenti. I movimenti più vistosi venivano denunciati ai carabinieri, ma sempre senza successo».
Il referente del Vinci conferma che il comandante interinale della tenenza di Randazzo, inizialmente, tentennò di fronte alla richiesta dei comunisti randazzesi di istituire un posto di blocco e per tale motivo quest’ultimi decisero di «Nascondersi dietro la siepe di fronte al bivio, armati e pronti a sparare anche contro i carabinieri se non avessero adempito alle funzioni concordate…»””.
L’avvocato Michele Papa, separatista di sinistra – nella sua Storia dell’Evis, Ed. Clio 1995 –, negò che ci fosse stata una “soffiata” ai carabinieri. Ed ancora che «non ci fu nessun agguato della destra separatista per liberarsi del comunista Canepa e non tutti quelli del Mis lo piansero». Papa ipotizza, però, un agguato dei carabinieri, spiegandosi così il massacro.
Per Sandro Attanasio – autore del volume Gli anni della rabbia, Mursia 1984 –, i movimenti di Canepa e dei suoi giovani compagni erano sotto controllo delle forze di polizia, il servizio predisposto dai carabinieri doveva portare alla loro cattura e non alla loro uccisione.
L’avvocato Nino Varvaro, esponente di spicco del Mis nel 1971, davanti alla Commissione antimafia riferì che Canepa morì «in un agguato non occasionale, ma combinato quasi certamente dagli stessi indipendentisti di destra; lui, infatti, aveva pubblicato un volumetto, “La Sicilia ai siciliani”, e aveva detto: “Quando faremo la repubblica sociale in Sicilia i feudatari ci dovranno dare le loro terre se non vorranno darci le loro teste”; e quella frase gli costò la vita».
Una ridda di supposizioni e versioni più o meno attendibili. Insomma, un intrigo. “Negli anni che seguirono, «La posizione di Amato – evidenzia Vito Vinci –, nell’incastro dei misteri dell’Evis, rimase sempre controversa, tant’è che le sue varie ricostruzioni postume sono state recepite come una sua esigenza di farsi scusare. Ma con chi, da chi e di che cosa? Lo stesso matrimonio con Graziella Rosano, sorella di Carmelo, da qualcuno fu considerato riparatorio e descrittivo di interiori inquietitudini. Quando Concetto Gallo ricostituì l’Evis, invitò anche Amato a riprendere le sue funzioni, ma ne ebbe un netto rifiuto… Però continuò a partecipare alle riunioni giovanili del Mis, in compagnia di un suo amico, che poi divenne un notabile politico, e con l’intendo di rastrellarvi voti in favore del Psi del quale, egli stesso, divenne consigliere socialista al Comune di Catania… Però sia chiaro che la strage di Randazzo fu solo la conclusione di un tradimento… Ma i mandanti veri, chi furono? Le ipotesi ci riconducono tutte e sempre alla politica internazionale, agli interessi che ne promanano e ai rispettivi servizi segreti. Bisogna ammettere che la Sicilia di oggi, sotto il profilo della finzione legalitaria, appartiene all’Italia che la gestisce usando la forza e il terrore. Sotto il profilo militare appartiene agli Stati uniti che l’hanno trasformata in una piattaforma militare di importanza primaria. Possiamo quindi ben dire che gli autori della strage furono tre: I mandanti internazionali – gli infiltrati che tradirono – gli esecutori inconsapevolmente strumentalizzati… I carabinieri, è il caso di ripeterlo, non ebbero un vero programma stragista, come non lo ebbero gli evisti. Entrambi i gruppi subirono la strage e l’involontaria imboscata».
Salvatore Riggio Scaduto – sorprendendosi per il fatto che gli evisti ben addestrati e più numerosi dei carabinieri si siano fatti massacrare o sconfiggere da quest’ultimi –, con la sua esperienza di magistrato, sottolinea che le successive sentenze, molto sbrigativamente, accettarono la tesi secondo cui i carabinieri vennero assaliti dagli uomini dell’Evis senza farsi alcuna delle giuste domande che gli storici si sono successivamente poste””. In effetti, l’eccidio di Murazzu Ruttu segnò, per l’indipendentismo siciliano, l’inizio dell’inesorabile sfaldamento che si sarebbe concluso due anni dopo. Nel 1955, calmatesi le acque, i corpi di Canepa, Rosano e Lo Giudice furono trasferiti nel cimitero di Catania e tumulati nel “Viale degli Uomini Illustri”. A Murazzu Ruttu, gli indipendentisti eressero un cippo in memoria di coloro che «caddero per la Sicilia vittime del puro ideale di patria».

L’intervista a Concetto Gallo: dall’eccidio di Randazzo…


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