Ragionando sulla storia della Sicilia e sul possibile rilancio dell’Autonomia

di Francesco Busalacchi  

La parola utopia deriva dal greco, ed è composta da un prefisso “ou”, che è una negazione: niente, nessuno e topos che significa luogo. Quindi nessun luogo, un posto che non c’è. Nel tempo la parola assume il significato di luogo immaginario, di posto ideale e per ulteriore traslato, di ideale tout court. Un mondo senza guerre, ad esempio

Sul modello di utopia è stato costruita la parola ucronia, anch’essa di origine greca, composta ancora dal prefisso “ ou” e dalla parola cronos, che significa tempo. Quindi nessun tempo, un tempo che non c’è, che non c’è stato. Anche la parola ucronia evolve fino a diventare una storia che non c’è, non c’è stata.

Dunque utopia, un luogo immaginario, ucronia, una storia immaginaria. Per esempio, una storia costruita sulla vittoria di Napoleone a Waterloo. Gli esempi sono ovviamente infiniti e gli effetti delle simulazioni possono essere alternativamente devastanti o divertenti. Esempio del primo caso è il seguente. La Germania nazista vince la II guerra mondiale. Siccome l’assioma è che è il vincitore a scrivere la storia, noi oggi, nella migliore delle ipotesi, nulla sapremmo dell’Olocausto; nella peggiore il dottor Goebbels e i suoi discendenti ci avrebbero convinto che l’Olocausto era stato necessario e dovuto.

(Un po’ come Escrivà di Balaguer, che qualificò come necessario il sangue fatto versare ai repubblicani nella guerra civile spagnola e che per pensieri come questi è assurto agli altari ).

Troppo orrore? Consoliamoci con l’applicazione dell’ucronia alla Sicilia del 1946, anno dell’entrata il vigore dello Statuto della Regione Siciliana. Bene. Sappiamo che i suoi contenuti sono sostanzialmente un recepimento delle tesi riparazioniste di Enrico La Loggia, il quale nella sua “Sintesi storica della questione siciliana” dimostra in modo inoppugnabile che l’Isola in meno di 100 anni di unità era stata spogliata e depredata, che era stata pretermessa in tutte i piani e le opere di crescita e sviluppo, il tutto a pro’ del Nord.

Il meccanismo statutario consiste in un rapporto tra competenze e risorse per farvi fronte in un armonico sviluppo e bilanciamento. Ma il seme della dissoluzione dell’Autonomia era stato già gettato da Aldisio, l’Alto Commissario per la Sicilia, il quale stabilì che in tutti gli organismi di governo, a tutti i livelli, dell’Isola dovevano essere presenti i partiti rappresentati nel CNL. Il che significava che i partiti del Nord erano anche i partiti del Sud.

E’ questa la radice della mala pianta che si chiamerà ascarismo. La presa diretta tra Roma e Palermo significherà per sempre che il Governo centrale è arbitro delle priorità nazionali (il che al 90% significa gli interessi del Nord), e che se, in nome di quelle priorità, devono ancora una volta essere sacrificati gli interessi siciliani, pazienza.

In quelle temperie quale segretario regionale di qualunque partito avrebbe potuto opporsi alla decisioni romane senza perdere il posto? E cosi i governi regionali vedono ridursi significativamente il proprio raggio d’azione. In tanta desolazione soccorre l’ucronia. Immaginiamo una storia in cui i siciliani tutti e, per transitività, i loro rappresentanti avessero fatto fronte comune contro Roma a difesa delle proprie prerogative e del loro Statuto e della sua applicazione, chiudendo ogni spazio all’ascarismo? Oso dire la parola tanti vituperata, se avessero fatto Lega? Lascio a voi la risposta.

Questo non accadde, ma accadde di peggio. Nel giro di 5 anni, la prima legislatura, la Regione, lungi dall’ottenere la piena attuazione dello Statuto, se ne vide ridurre i contenuti. Furono persi il diritto alla registrazione con riserva, il diritto di emanare decreti legislativi, l’Alta Corte per la Sicilia, parte delle risorse tributarie dell’art.36 (Sull’art 31, i poteri di polizia, parlerò in seguito).

Perché? Perché il primo Parlamento d’Europa, come primo atto, lungi dall’affermare e proclamare come sua ragion d’essere i principi etici che presiedevano all’autonomia, decise di equiparare il trattamento economico dei consiglieri regionali, che pomposamente si autodefiniscono deputati e che si fanno chiamare onorevoli, a quello dei Senatori della Repubblica; poi, per come si legge nella relativa delibera del Consiglio di Presidenza, “per ragioni di equità”, anche il trattamento economico dei dipendenti del medesimo primo Parlamento d’Europa fu equiparato a quello dei dipendenti del Senato (per inciso, faccio notare che trattasi non di tavole di Mosè, né di norme costituzionali e nemmeno ordinarie che possono quindi essere caducate in una riunione di 5 minuti del Consiglio di Presidenza del primo Parlamento d’Europa).

Il governo centrarle non fece un plissé. Era cominciato il rapporto perverso tra Roma e Palermo che si può sintetizzare nella formula “oil for food”. Soldi in cambio di voti.

Io non sopporto quelli che cadono dal piede di pitrosino. La politica nazionale, l’Amministrazione statale e il governo centrale possedevano e possiedono tutti i poteri politici e giuridici per intercettare l’avvio e la prosecuzione di uno scempio sistematico. Penso al Commissario dello Stato (che sollievo per tutti oggi, politici compresi, se ieri avesse impugnato le leggi istitutive del precariato!), o alla Corte dei Conti, la quale, se invece di fare le annuali rituali reprimende in toga e tocco avesse denunciato una sola volta alla Procura della Corte stessa qualche Presidente di Regione e qualche assessore particolarmente sbarazzini, avrebbe veramente dato una mano ai siciliani.

Ma la linea è stata sempre quella: utilizzate il denaro pubblico per clientele e assunzioni e la caccia al consenso generalizzato, e ritornateci questi soldi in voti al blocco storico dei centrodestra nazionali che se hanno governato per decenni lo hanno dovuto proprio a questo meccanismo distruttivo (e la sinistra ha firmato, se non tutte, posso dire quasi tutte le leggi regionali, oscillando dalla posizione di complice – Lazzaro alla cena del ricco Epulone – a quella di utile idiota) .

Ci dicono che tutto questo è finito, che non c’è più trippa per gatti. Che nessuno può pensare più di rivolgersi a Roma per avere la solita cospicua elemosina e continuare a garantire un consenso senza sviluppo. Se questo fosse vero gli scenari che si prospettano sarebbero apocalittici.

Chi manterrà le migliaia di parassiti che hanno solo il merito di possedere un certificato elettorale? Li manderanno a casa? Ci vorrà l’esercito, lo stato d’assedio e il coprifuoco. Ma non andrà così, sperano alcuni. Lo Stato consentirà alla Regione e a Comuni di derogare dai limiti delle addizionali, queste schizzeranno alle stelle e piangerà il giusto per il peccatore. Queste misure ci verranno gabellate come eque e necessarie e il modello greco sbarcherà in Sicilia non come una volta con i filosofi e gli artisti, ma con il viso dell’arme. E’ un dejavu.

Un elegante Professore ci manda i compiti da svolgere a casa e troppi in giro gridano al commissariamento della Sicilia. Sempre meglio dello stato d’assedio, misura alla quale nei primi sei anni dell’unità la Sicilia fu sottoposta per ben tre volte.

La prima subito subito, nel 1862, chi sa qualcuno si fosse fatto qualche illusione sul perché dell’unità, e che lasciò tracce terribili. Il secondo appena un anno dopo, con l’estensione nell’Isola degli effetti della legge sul brigantaggio meridionale. Fu un arbitrio ministeriale e l’Isola ebbe il piacere di conoscere il metodi da macellaio di un farabutto e criminale di guerra, il generale piemontese Govone. L’atto illegale fu ratificato con legge dello Stato dopo sei mesi e furono sei mesi in cui l’Isola fu in balia di un assoluto e implacabile arbitrio militare.

Il terzo stato di assedio fu imposto dopo l’insurrezione di Palermo nel 1866, la così detta rivolta del ‘Sette e mezzo’ e, nonostante l’insurrezione fosse limitata a Palermo, non parve vero di poterlo imporre a tutta la Sicilia. Il tutto corredato da lunghe parentesi di regimi di leggi eccezionali con le annesse facoltà di privare o limitare le libertà personali di quanti fossero soltanto sospettati di favorire

direttamente o indirettamente il brigantaggio, fenomeno peraltro quasi del tutto estraneo alla Sicilia. Troppo onore, quando sarebbero bastati pochi onesti insegnanti elementari!

Io inviterei i vertici delle associazioni produttive e dei sindacati, prima di svendersi a qualche nuovo pupo locale o a qualche vecchio voltagabbana, con la speranza di lucrare qualche piccolo favore nella prossima legislatura, di fare una seria analisi del quadro politico e sociale che sta maturando, di vedere più lontano della (improbabile) leggina o della nominetta in un posticino e di ricordare che sempre e comunque, seppure qualcosa otterranno, sarà un decimo di quello che tratterrà per sé il donante.

Infatti la frantumazione del quadro politico quale emerge dai risultati delle elezioni amministrative nazionali e soprattutto siciliane apre scenari nuovi e varchi impensabili solo qualche mese fa. Il blocco storico che da sempre vince le elezioni regionali non esiste più, la buona politica può farcela, se soltanto ancora una volta non si arrocca su vecchi schemi consociativi e non si affida a personaggi logori fino all’incredibilità.

Occorre aggregare una maggioranza nuova, nella consapevolezza che questa in Sicilia esiste già, e che sarebbe pronta a scommettersi solo con la forza di un programma e con l’affidabilità dei suoi esecutori. Bisogna però fare il botto, sparigliare le carte, far esplodere le contraddizioni della solita politica che ha costruito le proprie fortune sull’uso disinvolto della spesa pubblica e che con la fine di quella si è praticamente liquefatta.

Credo che oggi non sia più difficile trovare gli argomenti che possano fare breccia nelle di elettori educati inconsapevolmente alla conservazione, alla manipolazione e alla coercizione, perché quella maggioranza inossidabile di elettori assuefatti alla subalternità e per i quali era cosa certa, che, in mancanza di altro, il bene discende dall’elargizione e non dal diritto, che niente è dovuto e tutto è donato, che la questua e l’illegalità pagano, ebbene, quella maggioranza non esiste più.

Bisogna però scongiurare un pericolo più grave, che minaccia seriamente la possibilità di creare un nuovo assetto politico e sociale che faccia tesoro delle fallimentari esperienze appena vissute che hanno portato la Sicilia al punto in cui è, il disastro economico, la disgregazione sociale. Il pericolo cioè di allontanarsi dalla politica, di non cercarsi fino a ritrovarsi in un’ idea comune, in un programma massimamente condiviso, la cui attuazione venga affidata a persone serie, coerenti, competenti ed entusiaste. Chi sostiene di non fare politica fa politica, inevitabilmente, perché fa prevalere la politica degli altri. Chi non sceglie ha scelto gli altri. Chi non vota “perché sono tutti ladri” compie un’operazione suicida e illogica: è come se un onesto risparmiatore affidasse i suoi soldi a dei farabutti. Il voto è un diritto conquistato a costo di sacrifici e non si butta alle ortiche l’eredità dei padri.

Non è rincorrendo i soliti vecchi personaggi o i loro eredi, figli e delfini su temi triti e banali che si vince. Bisogna convincersi che ci può essere un’altra possibilità. Bisogna però fare il botto, sparigliare le carte, far esplodere le contraddizioni della solita politica che ha costruito le proprie fortune sull’uso disinvolto della spesa pubblica. In una parola, bisogna spiazzare gli avversari su temi sensibili e bisogna combatterli su un terreno che l’avversario non conosce.

I candidati ideali, in questo momento, sono quelli che non devono rendere conto ai partiti e alla vecchia politica, ma alla società. E’ il momento di una nuova politica, che tragga i suoi valori fondanti e i suoi nuovi interpreti dalla società produttiva, dall’impegno sociale, dall’entusiasmo dei giovani, dalle professioni, dai buoni amministratori, da quanti si riconoscono nei valori dell’essere cittadino, del lavoro e dell’onestà. Una nuova politica che spazzi via una volta per sempre personaggi logori, incredibili e improponibili e si assuma senza titubanze e a viso aperto la responsabilità di governare la Sicilia e risollevarne le sorti.

La politica è servizio; non è un lavoro, né fonte di lucro, è impegno sociale assunto nell’interesse di altri e non di se stessi.

I nostri antenati, prima di accostarsi agli altari per sacrificare alla divinità, si purificavano. Il significato è chiaro: chi vuole imporre sacrifici deve porsi nella condizione di imporli. Un grande messaggio etico alla Sicilia e ai siciliani è questo. E dunque:

abolizione delle Province.

incorporazione dei Comuni sotto i 15.000 abitanti nei Comuni viciniori più popolosi e abolizione delle amministrazioni elettive/rappresentative negli stessi Comuni. La popolazione voterà i suoi rappresentati nelle liste del Comune incorporante; abolizione dei consigli di quartiere e circoscrizionali.

Riduzione ad un terzo di tutte le indennità dei politici amministratori regionali e comunali. Più che i risparmi che si realizzeranno, che sono pure considerevoli, va eliminato il potere di intercettazione politica e burocratica che gli enti intermedi esercitano nei procedimenti amministrativi, il cui esasperato esercizio rallenta ingiustificatamente procedimenti complessi. Quanto ai Comuni, oltre alle considerazioni svolte per le Province, si aggiunge un ulteriore elemento che parte dalla necessità di ridurre le spesa. Non è più consentito in un quadro di dieta forzata delle istituzioni il lusso di Comuni con popolazione esigua.

E’ fondamentale porre fine al ricatto reciproco tra presidente della Regione e deputati, quello che ha consentito di trasformare l’Assemblea regionale in un bivacco di manipoli.

La norma secondo cui, in caso di dimissioni del presidente della Regione, l’Assemblea regionale si scioglie e i deputati se ne vanno a casa conferisce al presidente un potere assoluto sui deputati che, non potendolo cacciare via senza andarsene anche loro, sono costretti a subire tutte le sue bizzarrie. I deputati però, garantitasi la sopravvivenza, fanno quello che vogliono e tutti, approvato il bilancio, condizione anch’essa di sopravvivenza, si danno all’ozio strapagato. Questo si può evitare con un Referendum popolare di metà legislatura sull’attività svolta dal Governo e dall’Assemblea regionale. Se il gradimento risulterà inferiore al 50% dei votanti, il presidente della Regione si dimetterà, e l’Ars si scioglierà.

Altra proposta: abolizione di tutti gli enti strumentali della Regione e passaggio delle competenze alla Regione o ai Comuni.

Ancora: creazione presso l’assessorato regionale della Funzione pubblica del Ruolo unico del personale in servizio nelle istituzioni politiche e amministrative della Regione e confluenza nello stesso di tutto il personale in servizio in tutti gli enti e organizzazioni comunque a carico del bilancio della Regione (Ars, Amministrazione regionale). Al personale tutto, con salvezza dei diritti quesiti, sarà applicato il contratto collettivo nazionale dell’amministrazione statale.

L’amministrazione regionale ridurrà a 13 (quanti i rami della stessa) i dipartimenti. I settori saranno ridotti ad un terzo. Saranno ridotte ad un terzo altresì le direzioni istituite presso l’Ars. Saranno creati sub ruoli regionali a livello provinciale per la copertura delle funzioni regionali nei territori.

Abolizione di tutte le imposte e tasse addizionali introdotte nel tempo.

Chiusura immediata e dignitosa della turpe stagione del precariato.

Istituzione di un congruo presalario per i giovani, graduato in ragione della capacità, del merito e delle condizioni familiari, attivo dalla cessazione dell’obbligo scolastico e fino al compimento del 29mo anno di età, in un contesto fortemente strutturato di incentivi che garantiscano lo studio, la formazione e quindi il lavoro.

Costruzione e assegnazione di alloggi ai percettori di un reddito minimo.

Incentivi alle imprese, piccole, medie e grandi, a quelle artigiane, commerciali, agricole, dei servizi, che assumono personale formato con strumenti regionali.

Piano energetico: in Sicilia energia = energia solare.

Valorizzazione della produzione agroindustriale e agroalimentare siciliana. Perseguimento dell’obiettivo “Sicilia verde e biologica”

Parlare di infrastrutture, di strade, autostrade e ferrovie è perfino stucchevole e la gente ne ha le tasche piene. Si farà quello che si deve fare. Il programma esiste, è stato sottoscritto dall’Amministrazione statale e dalla Regione nel lontano 1999, e si chiama Intesa istituzionale di programma. Si tratta solo di lavorare.

Dov’erano i 61 del 61 a 0 quando Giulio Tremonti sfilava i soldi degli accordi-quadro per passarli al Nord? Alla bouvette? Questi nodi si tagliano, non si sciolgono.

Sul tema della legalità bisogna avere le idee chiare. La lotta alla criminalità organizzata è per due terzi un’operazione militare e per un terzo socio-culturale. Lo Stato non ha mai dato attuazione all’art. 31 dello Statuto della Regione che conferisce al presidente della Regione i poteri di polizia. E’ una norma fondante dell’autonomia, ma lo Stato non si è fidato. Ha fatto bene? Ha fatto male? Le vicende evolutive della mafia in Sicilia sono sotto gli occhi di tutti e ciascuno può esprimere il suo giudizio e formulare i più arditi pensieri specialmente in questi giorni avvelenati da uno scontro istituzionale al massimo livello.

Quindi, ad oggi, spetta allo Stato l’opzione militare.

Una riflessione però ci sentiamo di farla. Qualche anno fa il Censis consegnò il rapporto sul “Condizionamento delle mafie sull’economia, sulla società e sulle istituzioni del Mezzogiorno” al presidente della commissione parlamentare nazionale antimafia, Peppe Pisanu. Si tratta di un documento di assoluta importanza che sarebbe dovuto diventare oggetto di discussione parlamentare e di assunzione di immediate iniziative politiche e giudiziarie e di polizia. Invece è finito nel dimenticatoio, e ha fatto una fine forse peggiore di un analoga ricerca fatta nel 1876 da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, la cui unica conseguenza fu la risposta esclusivamente militare, truce, brutale e insensata. Che cosa dice il rapporto?

Dall’indagine è emerso che in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia è stata registrata una maggiore presenza delle organizzazioni criminali. Qui un Comune su tre, per l’esattezza il 37,9%, è impregnato dalla presenza mafiosa. Su 1.608 Comuni, 610 hanno un clan o un bene confiscato, o ancora sono stati sciolti negli ultimi tre anni (ecco un motivo superiore per abolire quanti più Comuni possibile: anche per togliere ai pesci l’acqua in cui nuotano!).

Se si considerano le singole regioni, è la Sicilia ad avere la maggiore quota di Comuni coinvolti (195, pari al 50% del totale); seguita dalla Puglia, dove 97 Comuni pari al 37,6% del totale registra la presenza di organizzazioni criminali, dalla Campania (203 Comuni pari al 36,8%) e dalla Calabria (115 Comuni, pari al 28,1%).

Il record negativo lo segnala la provincia di Agrigento, dove 37 Comuni, pari all’86% del totale, evidenziano un elemento di criticità; a seguire c’è Napoli dove il 79,3% dei Comuni ha un indicatore di presenza della criminalità organizzata, ed infine Caltanissetta, in cui i Comuni che presentano una indiscussa presenza di mafia sono il 77,3%.

Dati impressionanti, se si considera che 13 milioni di italiani, su un totale di quasi 17 milioni, in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia convivono con le mafie. E’ coinvolto il 22% della popolazione italiana, si legge nel rapporto. Nel 2007 il Pil medio pro capite delle quattro regioni è il più basso del Mezzogiorno e il tasso di disoccupazione il più alto (Notare che sono le uniche regioni ricomprese nell’ex obiettivo 1, oggi obiettivo convergenza della Ue, in quanto risultano essere le regioni più povere).

Non va meglio per i crimini di tipo mafioso. Su 26.900 reati di tipo mafioso denunciati in Italia nel 2007, la metà è stata commessa nelle quattro regioni a maggiore rischio. Un quadro “complesso e contrassegnato da un forte aumento delle estorsioni e delle intimidazioni; una contrazione delle denunce di associazione mafiosa, smercio degli stupefacenti e contrabbando”.

Ma se da un lato risulta raddoppiata e addirittura triplicata la percentuale degli imprenditori che segnalano l’aggressività del racket e dell’usura, il Censis parla di “ritardi e inefficienze dell’apparato pubblico (in senso lato) che si presentano con caratteri più accentuati proprio nel Mezzogiorno.

Su questo ultimo punto occorre richiamare un punto nodale della relazione sulla Sicilia del 1876 “Ogni ministero italiano si trova in questa quistione delle province meridionali fra il suo interesse e il suo dovere e fino ad adesso hanno sacrificato il dovere all’interesse. Per guadagnare qualche voto nelle elezioni hanno transatto con li abusi ch’era loro ufficio reprimere; per la nomina e la traslocazione degli impiegati si sono regolati non secondo l’utile dell’amministrazione ma secondo il tornaconto elettorale. Molte volte nella ricerca dei delitti o del loro autori si sono fermati, hanno indietreggiato davanti a colpevoli o a complici potenti. Insomma il primo a lasciarsi corrompere dalle influenze locali è stato il governo”.

Tutti conoscono la sanguinosa storia delle Brigate rosse, di come nella prima fase della loro attività criminale sembrassero imprendibili e introvabili e di come lo Stato non riuscisse a prendere le misure al fenomeno e a combatterlo efficacemente. C’erano nei loro comunicati enunciazioni politiche che dividevano i partiti di quel tempo e le forze politiche e forse qualcuna di esse non era aliena dall’aprire trattative di natura politica, non certo disinteressate. Quando le stesse Brigate rosse denunciarono qualche ambiguità in taluni comportamenti politici e affermarono che mai sarebbero scesi a patti con la politica italiana, nel giro di un solo anno furono tutti scovati, uccisi o imprigionati. Se la stessa unità di intenti, senza trucchi, senza lentezze e indugi, senza collusioni, intrecci, influenze a tutti i livelli, si realizzasse nella lotta alla criminalità organizzata, questa sparirebbe in mezza giornata.

Torniamo al rapporto Censis.

“Un dato su tutti è quello dei reati contro la pubblica amministrazione che mostra come il 42% avviene nelle 4 regioni maggiori del Sud”. Infine il Censis ha posto l’attenzione sulla penetrazione delle mafie a livello locale e nei settori più redditizi: le opere pubbliche, i finanziamenti comunitari, lo smaltimento dei rifiuti e la sanità. Una situazione che contribuisce a creare il divario tra Nord e Sud. “Gli indicatori sociali ed economici dimostrano che la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania, sono le 4 regioni più lontane dal resto del Paese con un Pil pro capite sotto il 75% della media europea e il 65,7% della media nazionale”.

Il che significa che senza la cappa oppressiva della criminalità organizzata il Prodotto interno lordo del Sud sarebbe uguale se non superiore a quello del Nord. La risposta dello Stato non è stata adeguata e le cose, se fosse possibile, sono peggiorate. Quale sarebbe la risposta adeguata? Portare il tema a livello comunitario, ottenere che la metà degli stanziamenti della Ue fossero concentrati in programmi operativi per la sicurezza democratica e l’altra metà nella formazione, nella educazione, nell’insegnamento e nella cultura.

La legalità in Sicilia non si promette né si proclama, si esercita e basta e, come tutte le grandi opere, si fa in silenzio.

Il presente è figlio del passato, così come il futuro è figlio del presente. Il futuro che immaginiamo, che vogliamo può condizionare il presente. Se desideriamo fortemente raggiungere un obiettivo, ecco che tutto il presente si costruisce in funzione del conseguimento di quell’obiettivo posto nel futuro. Se invece questo presente ci sta bene, non dobbiamo fare nulla.

Il Prof Costa: “I siciliani restino uniti, il nemico viene da fuori”
Lo Statuto siciliano va riformulato

 

 


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