L'uomo, ritenuto a capo del clan Morabito-Rapisarda, sarebbe il mandante dell'agguato avvenuto nella mattina del 7 giugno 2014. L'accusa ritiene che si sia trattato di una vendetta per la morte del fratello, avvenuta per mano della vittima nel 1982. I suoi legali però denunciano contraddizioni nella tesi del pentito Musumarra
Paternò, va avanti il processo per l’omicidio Leanza Pentito accusa il presunto boss Salvatore Rapisarda
«Sarebbero state quattro le pistole a sparare e non tre, essendo stati trovati bossoli di quattro calibri differenti» e «non ci sarebbe stato un colpo di grazia alla nuca, a distanza ravvicinata, come descritto dal pentito». Sono questa alcune delle incongruenze rilevate dal consiglio difensivo del presunto boss Salvatore Rapisarda, ritenuto a capo del clan Morabito-Rapisarda – considerato alleato del clan Laudani – nella ricostruzione fatta, in video conferenza da una località segreta, dal pentito Francesco Musumarra (detto Cioccolata), sull’omicidio di Salvatore Leanza (detto Turi Padedda), l’ex ergastolano ritenuto appartenente alla cosca Alleruzzo-Assinnata, che sarebbe legata ai Santapaola- Ercolano, e del tentato omicidio della moglie di Leanza.
Salvatore Rapisarda, difeso dagli avvocati Luigi Cuscunà e Guido Ziccone, è accusato di esserne il mandante. Nel corso dell’ultima udienza, tenutasi in corte d’Assise, è stato ascoltato dalla pubblica accusa il collaboratore di giustizia, che avrebbe ricostruito le fasi della preparazione e dell’esecuzione di Leanza. Secondo la sua tesi, Rapisarda volle vendicare la morte del fratello, avvenuta per mano di Leanza, nel 1982. Dalle indagini condotte dai carabinieri, grazie anche alle dichiarazioni del pentito, emergerebbe l’organico del gruppo di fuoco che avrebbe ucciso Turi Leanza, costituto dallo stesso pentito Francesco Musumarra, da Alessandro Farina, da Sebastiano Scalia (i tre avrebbero fatto fuoco utilizzando rispettivamente una calibro 38, una calibro 9 e una 7.65) e infine da Francesco Peci, che sarebbe stato alla guida dell’auto su cui il commando arrivò sul luogo dell’agguato e che avrebbe dovuto bloccare, secondo la ricostruzione del pentito, l’eventuale fuga di Leanza che, assieme alla moglie, che si trovava alla guida di un Alfa Romeo 156.
L’agguato fu messo in atto intorno alle 7 del 27 giugno 2014, nel momento in cui la coppia stava uscendo, a bordo del mezzo, dal piazzale della palazzina di viale dei Platani dove risiedeva. Anche Vincenzo Patti e Antonino Magro si sarebbero trovati sul posto con il ruolo di vedette. I verbali delle forze dell’ordine su cui è riportato il racconto di Musumarra delineano il ruolo del pentito nell’agguato: «Su mio ordine – si legge – dato che comandavo il gruppo di fuoco su precisa disposizione di Salvatore Rapisarda, partì per primo Sebastiano Scalia. Nel frattempo – prosegue il racconto – ho fatto partire Alessandro Farina». Ma ci sarebbero delle «incongruenze», sostengono i legali di Rapisarda, in quanto «gli esami della balistica dicono cose differenti», che saranno evidenziate dalla difesa nell’udienza del prossimo 12 dicembre, quando il collaboratore di giustizia, sempre in video conferenza, sarà sottoposto all’esame del collegio difensivo.
Il processo di primo grado in corso di svolgimento, e in cui è imputato solo Rapisarda, non è altro che una costola dell’operazione En plein messa a segno nell’aprile del 2015 dai carabinieri di Paternò, che portò all’arresto di 16 soggetti, presunti esponenti dei clan Morabito-Rapisarda e Alleruzzo-Assinnata. Intanto, secondo indiscrezioni, ci sarebbe un secondo pentito tra le file del clan Morabito-Rapisarda. Se fosse confermato, con il pentimento di un affiliato al clan si potrebbero aprire scenari importanti.