Morto presunto boss arrestato grazie alla moglie La prima pentita di mafia che confessò per amore

Si è spento all’età di 71 anni Gaspare Sugamiele, ritenuto elemento di spicco della mafia trapanese, figlio dello storico boss di Paceco Vito detto nasca e cognato di Girolamo Marino, detto Mommo u nano. L’uomo si trovava da tempo in casa della sorella Antonina. Per lui infatti, nonostante una condanna all’ergastolo per omicidio sulle spalle, i magistrati avevano disposto la scarcerazione per le precarie condizioni di salute in cui versava. Negli anni ’80 era la famiglia Sugamiele a comandare a Paceco, riuscendo a stringere accordi anche con il boss corleonese Totò Riina, almeno fino al 13 giugno del 1983, quando un diario finisce nelle mani degli inquirenti. Un quaderno di appena venti pagine che ricostruisce, attraverso nomi e fatti, l’organigramma della mafia pacecota. A consegnarlo ai magistrati, è la moglie di Gaspare Sugamiele, Margherita Petralia

È la prima volta che la moglie di un boss si pente, tradendo di fatto la famiglia. La donna, che all’epoca era appena una ragazza, dopo aver accusato il marito di omicidio prende con sé i figli e scompare. «Una mattina – si legge nei suoi scritti – Gaspare si ritirò più tardi del solito, sporco, impolverato e con le scarpe piene di terriccio e di foglie di vigneto. “Se vengono i carabinieri digli che sono rientrato a casa alle 22”. Quella mattina accesi la radio e ascoltai una notizia che mi lasciò senza fiato: un uomo era stato ucciso in un vigneto. Allora capii che il padre dei miei figli, l’uomo che amavo, era un mafioso, un assassino». 

La donna riferisce pure sulle attività del suocero Vito e sugli affari della famiglia, di cui numerosi membri finiscono in carcere. Negli scritti della donna compare per la prima volta anche il nome di Vincenzo Virga, capo di cosa trapanese, all’epoca dei fatti sconosciuto agli investigatori impegnati a dare la caccia a Totò Minore che era però deceduto. Gaspare Sugamiele finisce in carcere assieme al padre Vito ed altri esponenti della cosca di Paceco. Il processo alla mafia vecchio stampo arriva solo nel 1992, grazie ai pm Luca Pistorelli e Gabriele Paci. 

Vent’anni dopo, però, nel 2003 arriva un altro colpo di scena. Durante il processo d’Appello sull’omicidio di un imprenditore agricolo avvenuto nel 1974 e per cui Sugamiele era stato condannato all’ergastolo in primo grado, Margherita Petralia ricompare. E ritratta le sue vecchie accuse nei confronti del marito, con una lettera inviata ai giudici. «Ho mentito per amore», scrive, amore per un altro uomo e paura del marito che avrebbe scoperto il tradimento. Questa volta però i giudici non le credono. I racconti del suo diario, infatti, nel frattempo erano stati confermati nel ’97 dal pentito Francesco Milazzo. Le dichiarazioni di quest’ultimo contribuiscono a fare luce su diversi delitti, di cui anche Margherita aveva parlato. Tra questi c’è l’omicidio dell’agricoltore Vincenzo Rindinella, del quale Margherita accusa il marito. E quello dello storico capomafia Girolamo Marino, detto Mommo u’ nanu, assassinato all’età di 56 anni per ordine di Totò Riina. Un omicidio, secondo quanto emerso negli anni, maturato proprio a causa di Margherita Petralia. Girolamo Marino sarebbe stato ucciso proprio per essersi rifiutato di uccidere la donna, colpevole di aver tradito Cosa Nostra. 

Da quel lontano 1983, Sugamiele non avrebbe più visto la moglie. Qualche anno è stato scarcerato per la prima volta, poi il nuovo arresto per aver violato gli obblighi a cui era sottoposto. Poi il ritorno a casa, a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Da tempo era ospite della sorella Antonina, vedova di Girolamo Marino e madre di Vito, attualmente ricercato, su cui pende una condanna all’ergastolo pronunciata dalla Corte di Assise di appello di Milano a proposito del triplice omicidio della famiglia Cottarelli, compiuto a Brescia nel 2006.


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