C’è un popolo del web che ha affidato ai social l’ultimo saluto a Matteo Messina Denaro e le condoglianze alla sua famiglia. Poi ci sono i familiari delle vittime di mafia, a cui la notizia della morte dell’ultimo boss stragista – catturato a gennaio nella clinica privata La Maddalena di Palermo, dopo una latitanza lunga trent’anni – ha provocato reazioni diverse. Tutte accomunate, però, dal pensiero di quanto l’ormai ex primula rossa di Cosa nostra avrebbe potuto dire, se avesse scelto di collaborare con la giustizia. La stessa riflessione che fa anche Giuseppe Cimarosa, il figlio di una cugina di Messina Denaro che, anni fa, lo ha ripudiato e ha scelto di restare e investire a Castelvetrano. La cittadina del Trapanese che ha dato i natali al capomafia e dove adesso il suo corpo dovrebbe essere seppellito, nel cimitero comunale all’interno della cappella di famiglia. «Oggi che lui se n’è andato, di fronte alla morte ciascuno si ferma – sono le parole di don Luigi Ciotti, il fondatore dell’associazione antimafia Libera – Ma la morte non può cancellare le responsabilità di quella violenza, di quei crimini, di quelle centinaia di persone che sono state spazzate via».
E tra queste vite spazzate via, c’è quella di Giuseppe Di Matteo. Il ragazzo strangolato e sciolto nell’acido in un casolare nelle campagne di San Giuseppe Jato, nel Palermitano, l’11 gennaio del 1996 dopo anni di sequestro, a pochi giorni dal suo 15esimo compleanno. Quando è stato arrestato, Messina Denaro, ha tentato di ridimensionare il suo ruolo in quella vicenda ammettendo di avere partecipato alla fase del sequestro ma non a quella dell’omicidio. «La sua morte non mi provoca nessun sollievo. Con sé si porta dietro tanti segreti. Ero certo che non avrebbe collaborato», dice all’AdnKronos il fratello Nicola Di Matteo che, il giorno della cattura di Messina Denaro, si era augurato che potesse «vivere il più a lungo possibile per avere una lunga sofferenza, la stessa che ha imposto a mio fratello, un ragazzino innocente». E, invece, dall’arresto alla morte sono passati poco più di otto mesi. «Da credente non avrei potuto augurargli la morte. Non si può augurarla a nessuno se si ha un po’ di umanità, ma se fosse rimasto in vita sofferente avrebbe forse capito il dolore enorme che ci ha inflitto. Il perdono – conclude Di Matteo – è impossibile».
E c’è anche Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio nel luglio del 1992, a pensare ai segreti che Messina Denaro si porta nella tomba, «soprattutto sui rapporti tra mafia e Stato». Per Borsellino, «la sua cattura non è stata un successo dello Stato, ma una resa a fronte della sua malattia – dichiara a LaPresse – Ha preferito farsi curare dallo Stato piuttosto che curarsi nella latitanza. Purtroppo, essendo laico, non posso neanche sperare in una giustizia divina. Questa sua latitanza – aggiunge Borsellino – è stata una vergogna per lo Stato, come lo sono state le latitanze di Bernardo Provenzano e di Totò Riina». Non sono solo i parenti delle vittime di Cosa nostra a esprimersi, ma anche un familiare dello stesso Messina Denaro che si è detto «dispiaciuto» del fatto che il boss «abbia trascorso in carcere così poco tempo». Lui è Lorenzo Cimarosa, 40enne nipote del capomafia defunto che lo ha rinnegato e ha denunciato le intimidazioni subite. «Non lo dico per vendetta ma per giustizia – afferma l’uomo che è rimasto a vivere a Castelvetrano senza scorta – È morto troppo presto, avrebbe dovuto scontare più a lungo la sua pena, sperando che, facendosi un esame di coscienza, per una volta facesse la cosa giusta: iniziare a collaborare con la giustizia».
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