Alla procura di Siracusa c’è un fascicolo aperto a carico di ignoti e senza ipotesi di reato per la morte di Calogero Rizzuto, direttore del Parco archeologico aretuseo, deceduto lo scorso 23 marzo nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale Umberto I di Siracusa dove era stato ricoverato dopo essere risultato positivo al coronavirus. L’inchiesta è nata dopo la denuncia presentata il 14 marzo dal deputato regionale del Partito democratico Emanuele Dipasquale.
Una lettera indirizzata alla prefetta di Siracusa Giusy Scaduto con la ricostruzione dei fatti a partire dal 9 marzo, il giorno in cui a Rizzuto viene fatto il tampone su indicazione del medico di famiglia perché, già da una settimana, aveva febbre e tosse che sono sintomi compatibili con l’infezione da Covid-19. Adesso è la procuratrice Sabrina Gambino a coordinare l’inchiesta per verificare eventuali omissioni o ritardi nel ricovero e nell’esito dei tamponi dell’architetto Rizzuto. «Oltre alla cronologia dei fatti – spiega Dipasquale a MeridioNews – avevo allegato anche tutte le conversazioni e i messaggi di quei giorni». Scambi avvenuti sia con il direttore dell’Asp di Siracusa Salvatore Lucio Ficarra che con il Policlinico di Catania.
Dopo la diffusione della denuncia del deputato, la direzione generale dell’Asp di Siracusa ha inviato una nota «per rassicurare la cittadinanza sull’impegno per fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto». Una comunicazione in cui si entra anche nel merito della questione che ha riguardato Rizzuto. Per l’azienda sanitaria «sarebbe stato preferibile accettare il ricovero proposto nell’immediatezza dai sanitari in ragione della presenza di conclamati elementi di rischio». Dunque, stando a quanto ricostruito dall’Asp, sarebbe stato Rizzuto a rifiutare il ricovero in ospedale.
«Non risponde al vero che l’architetto abbia rifiutato il ricovero, anzi è vero l’esatto contrario», rispondono gli avvocati Giovanni Giuca e Salvatore Trombatore che stanno seguendo gli interessi della famiglia del dirigente regionale. «Rizzuto è stato rimandato a casa per ben due volte, nonostante i sintomi evidenti di un possibile avvenuto contagio – aggiungono i legali – Testimoni qualificati diranno esattamente come sono andate le cose al procuratore della Repubblica che sta seguendo il caso».
Gli avvocati ricostruiscono inoltre che «l’architetto aveva avuto il primo contatto con la struttura sanitaria il 4 marzo attraverso il suo medico di base. In quell’occasione, però, è stato ritenuto inopportuno eseguire il tampone nonostante il permanere della febbre a 38 gradi che si era manifestata già l’1 marzo». Già in quel momento, ai sanitari era anche stata data l’ulteriore informazione di un incontro di lavoro avvenuto a fine febbraio a Firenze con una delegazione coreana.
Il test per verificare l’eventuale positività al nuovo coronavirus non viene comunque fatto. «La motivazione fu che non rientra fra i “casi stretti” previsti dalle linee guida nazionali – sostengono gli avvocati Giuca e Trombatore – Adesso ci chiediamo: valeva la pena fare un tampone? Non sappiamo quale sarebbe stato l’esito – aggiungono – ma sicuramente la tempestività avrebbe giovato». Al momento, nessuna persona che ha avuto contatti con l’architetto è risultata positiva, nemmeno la moglie (che è già risultata negativa a due tamponi già eseguiti) e i due figli. «Questo perché, sin da subito, si sono comportati con la consapevolezza e le precauzioni che lo stesso fosse come infetto. Ciò ha evitato un’epidemia a livello locale. La cosa triste – concludono – è che Calogero non c’è più».
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