In quella stanza che i magistrati di Caltanissetta definiscono «segreta» «non c’è niente di segreto, solo documenti pubblici, e pure i fascicoli che mi portavano Cicero, Venturi ed altri». Antonello Montante risponde per oltre sei ore ai pm nisseni nel primo interrogatorio dopo il terremoto giudiziario che lo ha portato agli arresti domiciliari con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la pubblica amministrazione – quali la corruzione e la rivelazione di segreto d’ufficio – e all’accesso abusivo a un sistema informatico.
L’ex numero uno di Confindustria Sicilia ha parlato del mega archivio nascosto dietro una libreria e una porta blindata. «Quella stanza – spiega uno dei suoi avvocati, Nino Caleca – era spesso aperta, la libreria solo accostata. Tutti gli amici che andavano a cenare a casa di Montante ne conoscevano l’esistenza. Anzi, Montante ha spiegato che suoi colleghi industriali, a cominciare da Cicero e Venturi (i due grandi accusatori insieme ai pentiti ndr), gli portavano fascicoli da custodire lì dentro».
Ecco il primo punto della difesa: l’ex paladino dell’antimafia prende le distanza da alcuni fascicoli sequestrati dalla Procura, a cominciare da quello che certifica un accesso allo Sdi, la banca dati che utilizzano le forze dell’ordine per le indagini . «Non ne conosceva il contenuto – afferma Caleca – perché alcune cose le conservava senza neanche leggerle». In ogni caso, «da queste presunte informazioni segrete non ha mai ottenuto vantaggi, né appalti, né finanziamenti».
C’è poi il caso delle pen drive distrutte. Montante è stato arrestato all’alba di lunedì 14 maggio nella sua casa di Milano. Prima di aprire agli agenti della squadra mobile di Caltanissetta, ci ha messo un po’. E gli investigatori sono convinti che quel tempo sia servito per distruggere alcune pen drive, trovate effettivamente spezzate nell’abitazione. Diversa la versione della difesa. «Nell’abitazione sono state trovate 50 piccole pen drive, di cui 24 spezzate e 26 integre – precisa il legale, riportando la versione dell’imprenditore – lui le rompeva dopo averle trasferite in una pen drive più grande. Quindi quelle 24 trovate spezzate non le ha certo rotte in mezz’ora, ma è un lavoro fatto nelle settimane precedenti». Tutto il materiale, in ogni caso, è stato sequestrato dalla mobile e verrà analizzato. «Non ho capito che si trattava della polizia di Caltanissetta», così invece Montante avrebbe giustificato il ritardo nell’aprire la porta, nonostante gli agenti si siano presentati con il più classico degli «Aprite, polizia».
Nelle oltre 2.500 pagine dell’ordinanza di arresto, si racconta il piano, messo in atto durante un arco di tempo durato anni, che sarebbe servito a nascondere le prove del suo legame con Vincenzo Arnone e col padre Paolo Arnone, boss di Serradifalco, paese di Montante. A cominciare da alcuni documenti che sarebbero dovuti essere conservati nella sede di Confindustria Caltanissetta e che invece gli investigatori non hanno trovato. In sede di interrogatorio, Montante ha sottolineato che quelle carte non sono state distrutte ma le ha portate vie lui «per motivi di sicurezza» e si è riservato di consegnarle ai magistrati.
L’imprenditore ha quindi ribadito le sue accuse di inattendibilità nei confronti dei suoi grandi accusatori: i colleghi Marco Venturi e Alfonso Cicero e i diversi pentiti, a cominciare da Dario Di Francesco, stretto collaboratore degli Arnone prima e reggente della famiglia a Serradifalco dopo. «Ho sposato le istituzioni – avrebbe detto Montante ai pm – ho stravolto la mia vita e sono sicuro che non posso più tornare indietro. Cosa nostra mi farà pagare prezzi ancora più alti».
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