Cronaca

Matteo Messina Denaro e l’interrogatorio che ha «preso con un po’ di umorismo»

«L’ho presa con un po’ di umorismo». Ride Matteo Messina Denaro e risponde con un tono a tratti irriverente alle domande che gli pongono, durante l’interrogatorio, il giudice per le indagini preliminari Alfredo Montalto e i pubblici ministeri Gianluca De Leo e Giovanni Antoci. Più che la parte in cui si affronta il tema di un procedimento penale in cui il capomafia risponde di estorsione aggravata – per via di un terreno acquistato con un prestanome dal padre 40 anni fa – a essere interessante è l’inizio della conversazione con il boss stragista che è stato arrestato il 16 gennaio, nella clinica privata La Maddalena di Palermo, dopo trent’anni di latitanza. In collegamento dal carcere de L’Aquila – dove è detenuto in regime di 41 bis e dove, nei giorni scorsi, per la prima volta ha incontrato la figlia Lorenza Alagna che non ha mai riconosciuto e dalla quale non è stato mai rinnegato – l’ex primula rossa di Cosa nostra innanzitutto si presenta. Nome, cognome e data di nascita sono quelli. Soprannomi invece, proprio lui che aveva una necessaria passione tanto da attribuirne a persone, cose e luoghi nei pizzini, dichiara di non averne mai avuti in famiglia. «Me li hanno attaccati da latitante, i vari giornalisti», sostiene Messina Denaro che per tutti è sempre stato U siccu o Diabolik.

Niente nomignoli, dunque, e neppure una residenza. Matteo Messina Denaro afferma di essere «un apolide. So che in Comune (a Castelvetrano, ndr) tanti anni fa mi hanno cancellato». Un domicilio però lo fornisce – e non si tratta di nessuno dei covi trovati e perquisiti a Campobello di Mazara -, un indirizzo con tanto di numero civico nel suo paese natale di quella che è stata la sua ultima casa da uomo libero. «A Campobello ci risiedevo da latitante, quindi di nascosto, in segreto», precisa. Andando avanti con le generalità, si passa allo stato civile – «Celibe» – e poi alla professione: «Lavoravo in campagna, ero un agricoltore». Con gli studi, Messina Denaro racconta di essersi fermato al terzo superiore, dunque di avere solo la licenza media. Ma alla domanda sulle sue condizioni dal punto di vista economico risponde: «Non mi manca niente». Tranne i beni che sono stati prima sequestrati e poi confiscati. «Li avevo, ma me li avete tolti tutti. Se qualcosa che ho, non lo dico: sarebbe da stupidi. Ma li ho, sennò come potevo vivere fino a ora?». Di fronte alla domanda sulla sua conoscenza di altri procedimenti penali a cui è sottoposto, il boss stragista prima ride e poi dice solo: «Non lo so, ma penso di sì». Quando il giudice gli fa notare che lui, in effetti, non pensa ma sa, Messina Denaro controbatte: «Lo sapete pure voi. Per questo l’ho presa con un po’ di umorismo».

Finita questa prima parte di conoscenza, nell’interrogatorio si passa al punto che è al centro di un processo in cui l’ormai ex superlatitante è imputato per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Ed è proprio su questo punto che Messina Denaro si sofferma per una puntualizzazione. «Per me, nella mia mente, nel mio modo di ragionare, non è finalità mafiosa. È una modalità privata. Io – aggiunge il boss stragista – non faccio parte di nessuna associazione e quello che so di Cosa nostra lo so tramite i giornali». Salvo poi contraddirsi poco più avanti, nel discorso, quando per giustificare un suo comportamento afferma: «Ma non perché io sono più mafioso di altri». L’argomento riguarda un terreno che fu comprato, tramite un prestanome, dal padre di Messina Denaro. Morti entrambi, la questione passa in mano ai figli: da una parte c’è lui e dall’altra la figlia dell’intestatario fittizio Giuseppina Passanante che, insieme al marito Giuseppe La Rosa, quel pezzo di terra ha deciso di venderlo.

Quando la decisione arriva alle orecchie di Messina Denaro (su chi gliel’abbia riferita, ha deciso di mantenere il riserbo), da latitante decide di scrivere una lettera dai toni minacciosi che invia alla donna per posta. «Avevano l’affare concluso sotto prezzo, tanto non è che era suo – racconta durante l’interrogatorio – Voleva rubare il terreno e pagarsi il mutuo. Questi sono discorsi per me non onesti, ognuno poi risponde con la propria dignità delle cose che fa, nel bene e nel male». Messa da parte la sua personale filosofia su bene e male, Messina Denaro torna ai fatti e ricostruisce di avere scritto una lettera «non dattiloscritta ma amanuense» per la donna. Un foglio scritto a penna su cui ha messo di suo pugno anche la firma senza usare pseudonimi ma proprio con il suo nome e il suo cognome. «Perché io credevo di essere nella ragione dei fatti», dice per motivare la scelta di essere uscito allo scoperto nonostante fosse latitante. Ma non solo anche perché «se fosse stata Biancaneve a parlare, si sarebbero fatti una risata, quindi per forza dovevo dire che ero io».

Marta Silvestre

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