Marsala, nessuna prova di legami tra trafficanti e jihadisti Pm: «Ma clandestinità può favorire contatti con terroristi»

«I tuoi soldi li hai spesi per una giusta causa». Un motivo valido e soprattutto sospetto, specialmente perché segue un giuramento nel nome di «Mohamed», ovvero Maometto. Ruota intorno a queste poche battute, intercettate dalla guardia di finanza, l’ipotesi secondo cui l’associazione criminale fermata ieri a Marsala – nell’ambito dell’inchiesta Scorpion Fish coordinata dai magistrati della Dda di Palermo – abbia potuto avere interesse a favorire l’ingresso in Europa di persone vicino al terrorismo di matrice islamista.

Nel decreto di fermo nei confronti delle 17 persone di origine tunisina e italiana – e residenti tra il Trapanese e la Toscana -, tutte accusate di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, i magistrati Calogero Ferrara, Claudia Ferrari e Federica La Chioma sottolineano come non si possa escludere che gli indagati abbiano avuto contatti con ambienti estremisti. «Il riferimento alla giusta causa induce a ritenere una possibile contiguità con ambienti radicalizzati che sarà oggetto di ulteriori approfondimenti investigativi», si legge nel provvedimento. 

A parlare nell’intercettazione sono Jabranne Ben Cheik, 28enne ritenuto a capo del sodalizio, e la compagna 55enne Simonetta Sodi. La donna sta ascoltando le dritte impartite da Ben Cheik per recuperare il denaro necessario ad acquistare uno dei gommoni che il gruppo avrebbe usato per fare la spola tra la Tunisia e Marsala. Taxi di lusso che, in cambio di tremila euro, avrebbero garantito viaggi verso l’Italia veloci e sicuri. Con gli sbarchi che, in più di un’occasione, sarebbero avvenuti a pochi passi delle Saline e dell’isola di Mozia, dove l’acqua è bassa e si può raggiungere la terraferma a piedi. Sodi ascolta il compagno promettendo di non fare brutti scherzi. «Giura con Mohamed che non mi freghi con questi soldi perché mi servono, urgente», chiede il 28enne in un italiano stentato. E la donna lo rassicura: «Giuro su Mohamed che è la mia vita, io non ti tocco niente».

Per il resto, nelle 150 pagine prodotte dalla procura di Palermo, i riferimenti agli ambienti radicalizzati rimangono tutti sul piano delle ipotesi e delle riflessioni legate alla situazione internazionale attuale. «Il sodalizio costituisce una seria minaccia alla sicurezza nazionale – si legge – poiché in grado di fornire ai suoi utenti un transito marittimo sicuro, occulto e rapido, dunque particolarmente appetibile anche da parte di soggetti ricercati dalle autorità tunisine, in quanto gravati da precedenti penali o di polizia, ovvero sospetti di connessioni con formazioni di natura terroristica di matrice jihadista». A riguardo, in realtà, viene anche citata una conversazione telefonica dove un tunisino, parlando con uno dei sodali di Ben Cheik – che in Italia aveva assoldato un italiano come autista in quanto privo di patente -, fa capire di essersi nascosto dalle autorità tunisine, di essere «stressato» e per questo di volere «uscire dal Paese in qualsiasi modo». L’interlocutore replica che ci penserà lui e aggiunge di sperare che lui e gli altri passeggeri «arrivino in Italia e non li rimandino indietro a causa di terrorismo o qualsiasi altro motivo». 

La genericità delle affermazioni non consente di comprendere se il timore del migrante derivi dalla consapevolezza che al momento per i tunisini è difficile ricevere protezione internazionale o se in realtà pensa possano scoprirsi eventuali relazioni pericolose con l’estremismo. D’altronde sono gli stessi magistrati a fare notare che «la ragion d’essere della clandestinità degli spostamenti nel territorio nazionale, e poi all’estero, è fondata sulla necessità di evitare l’espulsione, soprattutto nel caso in cui il migrante provenga da paesi come la Tunisia in cui non vi sono ragioni per un immediato riconoscimento dell’asilo». 

Tra gli elementi che rendono appetibile la clandestinità del viaggio sui gommoni veloci, gli inquirenti mettono anche la possibilità di evitare il fotosegnalmento in Italia, poiché «ai sensi della vigente normativa questo determina l’esito del procedimento amministrativo nel paese ove è iniziato, mentre i migranti di norma preferiscono trasferirsi nei paesi del Nord Europa», e in terza battuta anche l’eventualità di una maggiore possibilità di connessione con ambienti estremisti di tipo jihadista. In quanto, scrivono i magistati, «l’esperienza degli ultimi anni dimostra come proprio in tali Paesi (del Centro e Nord Europa, ndr) vi siamo maggiori possibilità di instaurare contatti, anche al fine di commettere eventuali atti terroristici».

Intanto il gip ha iniziato ad ascoltare alcuni degli indagati. A essere stati sottoposti a interrogatorio sono stati il mazarese Gaspare Gullo e i tunisini Sarra Ben Salem e Nejib Ammar, residenti rispettivamente a Marsala e Campofelice di Fitalia, in provincia di Palermo. Il giudice ha disposto l’obbligo di dimora a Mazara del Vallo per Gullo, gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico per Ben Salem – una delle donne coinvolte nell’inchiesta – e la custodia in carcere per Ammar.


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