Mafia, soldi, e potere: parola ad Adriana Laudani «Catania e la nuova era dei Cavalieri del Lavoro»

«Catania si mostra oggi come una città depressa». La descrizione è di Adriana Laudani, 71enne avvocata catanese che in passato è stata difensore di parte civile nei processi di vittime della mafia come il generale e prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giudice Rocco Chinnici e il giornalista Giuseppe Fava. La sua vita, privata e personale, è legata ad alcune tra le vicende politiche e civili più importanti della Sicilia e del capoluogo etneo. Prima di lasciare l’impegno politico per dedicarsi alla professione forense in materia di diritto Amministrativo, Laudani è stata consigliera del Comune di Catania – eletta nelle file del Partito comunista italiano – dal 1974 al ’79 e parlamentare all’Ars per tre legislature, dal 1975 al ’91. Esperienze diverse, in periodi della storia nazionale e siciliana particolarmente delicati, che non la fanno esitare nemmeno un attimo quando dice: «La contaminazione tra il potere politico, economico e mafioso è storicamente strutturale, non certo episodica». Uno spunto che permette di analizzare il legame tra istituzioni, denaro e criminalità organizzata. 

Quando e come si manifesta questo rapporto?
«La mafia dialoga con la politica fin dai tempi più antichi sia in Sicilia che in America. E fin dalle sue origini è a servizio delle classi dirigenti politiche ed economiche per diventare essa stessa classe dirigente, non per sostituirvisi. Perché vuole entrare nelle stanze del potere che decidono le sorti di tutti e perché vuole ricavarne vantaggi. Io lo definisco un rapporto di autentica simbiosi mutualistica in cui gli attori di questo panorama si scambiano favori per acquisire sempre più spessore e denaro».

Nello specifico, quali sono gli elementi sul piatto dello scambio tra politica e mafia?
«Le istituzioni malate usano la criminalità organizzata come strumento utile all’acquisizione del consenso, tramite i voti. In cambio offrono alla mafia la certezza dell’impunità dei suoi reati e la possibilità di grandi guadagni economici». 

E in quale settore si annidano i grandi guadagni prospettati alla malavita organizzata?
«Nel mondo dei grandi appalti dell’edilizia. Con il passare del tempo la mafia si è riciclata essa stessa imprenditrice di grosse opere. Un meccanismo che giornalista Giuseppe Fava ha magistralmente descritto nell’articolo di apertura de I Siciliani dal titolo I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, nel dicembre del 1982». 

Le cronache catanesi, di recente, hanno riportato l’arresto per corruzione dell’imprenditore etneo ai vertici dell’azienda Tecnis Mimmo Costanzo e del suo socio Concetto Bosco Lo Giudice. Di poco successiva è la notizia dell’intercettazione sull’affare Pua tra l’allora candidato sindaco di Catania Enzo Bianco e l’imprenditore-editore de La Sicilia Mario Ciancio Sanfilippo. Catania sta vivendo una nuova fase «dei Cavalieri del Lavoro»? 
«Sì. Il meccanismo svelato dal direttore de I Siciliani non si è modificato né interrotto, siamo davanti a una nuova era. Che l’impresa di Costanzo si fosse aggiudicata in Sicilia e in Italia una quantità di opere straordinarie avremmo potuto saperlo tutti, se avessimo voluto, in virtù di una legislazione sulla trasparenza degli appalti, che la Sicilia si è conquistata fatica a partire dal lavoro svolto dall’ex presidente della Regione Pier Santi Mattarella. Bisognerebbe interrogarsi sul perché non lo si è fatto. Penso poi anche alla vicenda della grande concentrazione di centri commerciali che c’è in provincia di Catania. Un caso che mostra quelle che definisco le grosse lavanderie dei capitali mafiosi». 

Ai nuovi Cavalieri del Lavoro quali settori dell’imprenditoria interessano? 
«C’è la sempreverde edilizia delle opere pubbliche. Ma ci sono anche gli interessi legati alla grande distribuzione e alle cosiddette energie pulite». 

Nel panorama descritto, il ruolo della cittadinanza attiva è solo marginale?
«No, ma è certamente difficile che ciascun cittadino faccia la propria parte. Soprattutto perché la formazione delle persone passa anche dalla loro informazione. E noi catanesi siamo stati penalizzati in modo drammatico e radicale dal sistema di monopolio dell’informazione che ha pervaso la città e che poi ha coinciso con il sistema di potere. Lo stesso sistema che ha rappresentato e difeso, essendone parte essenziale. Mi riferisco all’editore del quotidiano La Sicilia Mario Ciancio Sanfilippo. Se il quotidiano La Repubblica non pubblica ancora oggi notizie su Catania è in virtù del patto di influenze stretto dall’imprenditore etneo con i vertici del quotidiano nazionale».

Ciancio è stato di recente prosciolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Per la giudice per le indagini preliminari Gaetana Bernabò Distefano: «Il fatto non costituisce reato». Cosa ne pensa?
«Il proscioglimento di Ciancio in istruttoria è un fatto del tutto inedito nella storia giudiziaria del nostro Paese e, in particolare, nella storia dei procedimenti sulla criminalità organizzata». 


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