Mafia, la storia dietro la confisca ai Cappello La cassiera con 400mila euro nel pavimento

La cassiera del clan Cappello e il marito per mesi avrebbero aiutato i cognati nella gestione del traffico di droga a Catania. Sono Daniela Strano e Massimo Leonardi i protagonisti dell’ultima confisca della divisione anticrimine della polizia di Catania. Un patrimonio da 12 milioni di euro a cui sono stati messi i sigilli dopo un decreto disposto dal questore Marcello Cardona. L’indagine patrimoniale nasce dall’inchiesta Revenge IV che 2012 ha coinvolto decine di affiliati di una delle cosche collegate al clan dei Cappello. Ma soprattutto uno dei vertici, cognato di Strano e Leonardi: Alessandro Bonaccorsi, ritenuto dagli inquirenti uno dei più grossi trafficanti di cocaina a Catania. Non ancora 40enne, l’uomo in passato venne considerato uno dei padrini della nuova mafia. Tanto da essere indicato da alcuni collaboratori di giustizia come l’unico in grado di poter sostenere, per disponibilità di soldi e armi, una possibile guerra con la famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano. Un ruolo di spessore che non sarebbe stato intaccato nemmeno da una vecchia storia che gli costò l’allontanamento dai Cappello. Dopo una rapina Bonaccorsi indicò alla polizia il nome dei suoi complici. Una scelta fuori da ogni logica mafiosa, a cui però seguì il reintegro. 

Le indagini patrimoniali hanno accertato la riconducibilità alla cognata di Bonaccorsi e al marito di quest’ultima di due società. Si tratta della Metal Ferrosi srl e della Giada Immobiliare srl. In queste aziende – attualmente amministrate dallo Stato – secondo gli inquirenti, sarebbe stata immessa la liquidità proveniente dagli affari della cosca. Imprese trasformate in lavatrici del denaro proveniente dalle piazze di spaccio e che avevano tra i soci una rete di prestanome. I nomi sono quelli dei familiari di Leonardi: Rosa Maria Cantarella e Delia Stella, rispettivamente madre e zia, oltre al padre Felice che insieme al fratello Salvatore ha gestito la Metal Ferrosi a partire dalla fine degli anni ’90. 

Nell’ordinanza Revenge si parla in maniera esplicita del ruolo di Daniela Strano e del marito.  La donna per la sua mansione di cassiera avrebbe percepito, su indicazione del cognato detenuto, uno stipendio settimanale variabile tra settecento e mille euro. Nel luglio 2010 gli agenti della squadra mobile perquisirono la casa di Leonardi. Dentro una botola ricavata sotto un armadio vennero scoperti 400mila euro in contanti. Soldi suddivisi in 28 mazzette con banconote di vario taglio che sarebbero gli incassi dalla spaccio di droga. Poche ore prima, invece, nella casa di Bonaccorsi, all’interno di un cassetto nascosto di una credenza, le forze dell’ordine trovarono diverse centinaia di miglia di euro in contanti, insieme a numerosi gioielli. La perquisizione venne commentata il giorno successivo in carcere dalla moglie del presunto boss in ascesa. Bruna Strano si rivolse al marito nella sala colloqui del carcere senza mezzi termini: «Sono uscita a mezzanotte da là dentro! E tutto l’oro… Tutto si sono portato! Mi hanno scippato anche i muri! Tutto!». 

Nella lista dei beni che sono stati confiscati ieri ci sono anche quattro terreni, sette corpi di fabbrica tutti a Catania e 15 tra automobili e autocarri. La misura è stata disposta anche per alcuni saldi attivi in conti correnti e rapporti bancari e postali. Per Daniela Strano e Massimo Leonardi, imputati nel processo Revenge e sorvegliati speciali, è stato anche disposto l’obbligo di firma e il divieto di allontanamento dal territorio comunale. Alessandro Bonaccorsi e la moglie (sorella di Daniela Strano) nel processo con rito abbreviato sono stati condannati in primo grado rispettivamente a 20 anni e otto anni e otto mesi. Tra gli aneddoti che fanno parte della storia del rampante boss c’è anche quello di una finta operazione – poi non effettuata – per evitare il carcere. Oltre a una campagna stampa che sarebbe stata organizzata dalla moglie, sulle pagine della rivista Magma, per focalizzare l’attenzione sulle condizioni dei detenuti all’interno delle carceri. 

Una doppia strategia che avrebbe avuto un obiettivo unico. Secondi i magistrati, pur di evitare il carcere e garantirsi la libertà, nel 2012 Bonaccorsi avrebbe dovuto simulare un ricovero d’urgenza per essere operato al pancreas, così da risultare incompatibile con il regime carcerario e poter tornare a gestire gli affari. Alla vicenda si è aggiunto anche il mistero legato alla morte di Maria Costanzo, la dottoressa 66enne incaricata dell’operazione e poi rinviata a giudizio. Un decesso, avvenuto a gennaio 2015, che ha assunto i contorni del giallo. Tanto da indurre la procura di Catania a chiedere l’autopsia sul suo corpo


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