Mafia e pizzo, il copione delle vittime finite indagate «Non dire niente e non parlare di soldi, sono clienti»

«Non dire niente. Devi parlare di cose antiche, che loro manco le segnano». «E se mi dicono di Salvo Rannesi?». «Tu non ti soffermare sulla foto». Un dialogo a voce bassa tra i coniugi Sebastiano Grasso e Margherita Militi, rispettivamente titolare della Autopropangas di Misterbianco e proprietaria degli impianti di distribuzione di carburanti Gm Gas di Mascalucia. Secondo gli inquirenti in quel dialogo c’è un copione, stilato punto per punto, per concordare le risposte da fornire durante un faccia a faccia con i carabinieri. La coppia, come emerge dagli atti, è finita indagata per favoreggiamento nell’inchiesta Malupasso. Indagine che ha acceso i riflettori su una cappa di omertà che avvolge Mascalucia.

Mentre Grasso e Militi parlano, le microspie li tengono sotto controllo e nei brogliacci delle intercettazioni finisce anche la presunta formulazione del copione che avrebbero dovuto recitare davanti alle forze dell’ordine. Si parla dei fratelli Carmelo e Salvatore Rannesi (solo il secondo risulta indagato). Quest’ultimo ritenuto inserito nel gruppo mafioso Lineri, operante nel territorio di Misterbianco e appartenente alla famiglia Santapaola-Ercolano. «Rannesi, certo si prendeva le bombole, mi ha lasciato magari 6.900 euro», propone di dichiarare Militi ai magistrati. Ma il marito – conosciuto come zio Iano – la interrompe: «No, non parlare di soldi, perché loro cercano questo», le consiglia. «“Io lo conosco, ogni tanto si prendeva le bombole” – le suggerisce di dire – e basta».

Durante il dialogo, registrato il 10 febbraio del 2018, Grasso esorta la moglie a non adottare prese di posizione circa il ruolo dei soggetti protagonisti delle prevedibili domande degli investigatori. «Senza dire: “Io con certa gente non voglio avere a che fare”», «perché lui poi dice – riferendosi agli inquirenti – “perché che gente sono?”». Nel corso della conversazione i due continuano a tessere la trama di un racconto che, secondo i magistrati, non esisterebbe. Tre giorni più tardi si va in scena. «Premesso che quest’ufficio è a conoscenza dell’avvenuta cessione di un dazio estorsivo in favore di persone pregiudicate, lei cosa può riferire?», chiedono gli inquirenti a Militi. «Come vi ho detto nelle precedenti dichiarazioni – risponde la titolare della Gm Gas – non ho ricevuto alcuna estorsione e tanto meno ho mai ricevuto minacce in tal senso». Il copione viene replicato a luglio 2018 quando a essere sentito è il figlio Matteo Grasso, socio accomandatario e amministratore unico della Regalgas di Regalbuto.

La stessa azienda in cui, alcuni mesi prima, un certo Nunzio delle bombole aveva osato fare «l’azzampo» ai Puglisi-Mazzaglia. Ovvero aveva chiesto il pizzo in un territorio che era sotto l’egemonia del gruppo mascalucioto. Solo dopo Mazzaglia scopre che il tradimento sarebbe stato opera del cugino Salvatore Rannesi, ritenuto reggente a Lineri. «È un figlio di sucaminchie – inveisce Mazzaglia in una delle tante conversazioni con il nipote Salvo Puglisi – da ora in poi siamo in guerra». Una scoperta che manda su tutte le furie gli esponenti del gruppo. Gli stessi il cui intervento sarebbe stato fondamentale per ottenere un aumento della quota estorsiva (da 2.000 a 4.000 euro). In questa storia emerge pure la figura di Mirko Pompeo Casesa, fratello dell’ex consigliere comunale Tiziano (non indagato), e marito di Agata Mazzaglia. In un dialogo risalente a Natale 2017 l’uomo, insieme ai fratelli Puglisi, appare infuriato tanto da chiedere di fare fuori Rannesi, colpevole di essersi preso i soldi destinati agli affiliati detenuti. «Salvo – tuona Casesa – se è così me lo devi ammazzare qua davanti».

Storie che, secondo gli inquirenti, non sarebbero fatti isolati. Troppi esercizi commerciali mascalucioti hanno deciso di non denunciare. E, tra vittime compiacenti e poche ribellioni, spuntano anche noti bar e ristoranti. Oltre alla tentata estorsione a una storica farmacia. Ma, queste, sono altre storie. 


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