Estorsioni nell’Acese e a San Giovani La Punta. Sequestri di persona. Auto di lusso in cambio dell’importo del pizzo. Gran parte delle pagine dell’ordinanza che ha portato a un mandato di arresto per 109 persone ritenute affiliate o vicine al clan Laudani è dedicata a una delle principali attività economiche del gruppo criminale. Decine di migliaia di euro che servivano soprattutto a pagare lo stipendio alle famiglie dei detenuti. Sono 16 in tutto le persone coinvolte con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso: una rete ricostruita grazie alle testimonianze dei collaboratori di giustizia. Su tutti Giuseppe Laudani, nipote prediletto del boss Sebastiano. Almeno fino alla scelta del pentimento. «Le liste passavano di mano in mano, in occasione degli arresti – racconta ai magistrati – ed erano diverse per evitare che gli investigatori potessero venire in possesso dell’elenco completo». «A quanto lo deve comprare il pomodoro?», è una delle frasi in codice usata dagli arrestati per fissare il prezzo del pizzo. E per indicare la stessa tangente si rimaneva nel campo gastronomico: «Caffè da portare» oppure «Una pizza, da dividere in cinque, ma con la rucola!».
Tra i casi ricostruiti nell’ordinanza, ampio spazio è dedicato alla concessionaria di auto Pappalardo, ad Acireale. A cui era stato assegnata un’estorsione da diecimila euro l’anno, spesso convertibile in auto di lusso. «Perché non gli regali questa macchina (a Giuseppe Laudani, ndr)?», chiedevano al titolare, che non è indagato, gli uomini dell’oggi collaboratore di giustizia. Un copione che si ripete una decina di volte, a memoria dei pentiti. Con «un Bmw 530 D e un Bmw X5 nero; una Smart FourFour e una due posti; due Z4, una grigia e una nera; Uno o due Slk e un’Audi Q7 color celestino che penso valga circa 60mila euro», elenca Carmelo Riso. Un atto dovuto, secondo Laudani, da parte del titolare della concessionaria. «Tutto quello che ha se l’è costruito perché è amico della famiglia Laudani – spiega ai magistrati – Se il signor Pappalardo si permette di mettere una o due Ferrari fuori dall’autosalone, all’acqua e al vento, e nessuno passa e gli butta anche una pietra per romperci un vetro, un motivo ci sarà. Se lo facesse un commerciante qualsiasi, penso che non troverebbe più niente».
C’è poi la storia del centro commerciale di San Giovanni La Punta I Portali e dell’estorsione tentata all’imprenditore che l’ha costruito, Nunzio Romeo, anche lui fuori dall’inchiesta I vicerè. Laudani, racconta lui stesso nei verbali, sa che Romeo è già legato ai Santapaola, nello specifico al gruppo di Villaggio Sant’Agata, ma pretende una percentuale del due per cento sull’appalto perché i lavori insistono in una zona di competenza del suo clan. E non solo. «C’eravamo sbrigati per conto suo con quelli del cinema Centrale, ci avevamo parlato per dire loro di non fare problemi per l’appalto dei multisala», racconta il pentito. Che impone all’imprenditore il pagamento di 400mila euro entro dieci giorni. Dopo l’intervento dei Santapaola, però, si sarebbe arrivati a un accordo: l’estorsione da novemila euro al mese pagata da Romeo sarebbe stata divisa equamente. Metà ai Santapaola e metà ai Laudani. Minore fortuna avrebbero avuto invece Mario e Vincenzo La Mastra, non coinvolti nell’indagine, titolari di una ditta per la vendita e il noleggio di apparecchi per il gioco elettronico a San Giovanni La Punta. «Da sempre legati alla famiglia Laudani – spiega Giuseppe – Danno una quota di estorsione annuale per le festività». Ma un giorno, davanti alla richiesta di dieci o 20mila euro, i La Mastra avrebbero tentato di chiudere l’accordo con una somma molto inferiore. «Cinquecento, mille euro e dice “Questi vi posso dare, e basta”». Per tutta risposta, Giuseppe Laudani organizza un raid in cui «se ne vanno a bruciare il deposito, i furgoni e altre cose», racconta ai magistrati.
E ancora meno bene sembra essere andata a un altro imprenditore, Giuseppe Santonocito, anche lui non indagato. «A chiedermi di fare l’estorsione è stato il figlio perché c’aveva dei rancori col padre», spiega Laudani. Il riferimento è a Filippo Santonocito, ritenuto dai magistrati un affiliato al clan. «È stato preso nelle mattinate, verso le sei e mezza – continua – l’hanno portato nella vigna accanto a casa di mia nonna». Lì sarebbe rimasto, in un casotto a cui per l’occasione vengono murate le finestre. «Tutto è durato una mattinata, fino a mezzogiorno» e fino a quando Santonocito non si sarebbe convinto a pagare diecimila euro in contanti – «quelli che aveva addosso» – più la solita macchina di lusso, una Bmw serie 7. Auto poi rivenduta a un ragazzo di Bronte che l’ha pagata con una serie di assegni scoperti. Ricevendo in cambio una sessione di botte. Tornando a Santonocito, secondo i racconti di Laudani anche lo stratagemma usato per fare crollare l’imprenditore era stato pensato dal figlio: «Parlateci di mia sorella che lui…». «Se tu non ti convinci, andiamo noi a prendere tua figlia a scuola», avrebbero detto i sequestratori. Annullando così le resistenze dell’imprenditore. Che «poi è stato riaccompagnato a casa», conclude il suo racconto Giuseppe Laudani.
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