L’università invecchia? No, è decrepita!

In Italia il 57% dei docenti universitari ha più di cinquanta anni e solo il 4,7% ne ha meno di 35. Il dato è più che desolante. Per Stefano Zapperi e Francesco Sylos Labini si tratta di un allarme serio a cui il mondo accademico può rispondere solo con una rinnovata politica di assunzioni.

“Quando l’università invecchia” è il titolo dell’inchiesta condotta dai due ricercatori pubblicata sul mensile Le Scienze, in edicola in questi giorni, e ripresa da Repubblica.it. Si tratta di una esame della situazione della docenza universitaria italiana,. Un’analisi che parte dai dati resi pubblici dall’Ufficio statistica del Miur e liberamente consultabili sul sito del ministero.

Scorrendo i numeri e interpretando le tabelle, ci si rende conto che più della metà (57%) dei nostri docenti hanno compiuto i cinquant’anni e che ben il 22% ha passato anche i sessanta. È questo quello che viene definito dagli autori uno “tzunami demografico”. Esiste infatti un’onda anomala che si avvicina alla costa. L’onda è questo esercito di professori anziani (in particolare la fascia d’età compresa tra i 55 e i 65 anni) che tra 10-15 anni raggiungeranno la costa della pensione.
Questo evidente squilibrio tra il personale anziano e quello più giovane è frutto di una politica legislativa e di assunzioni che, secondo gli autori, è iniziata con la Legge 382/1980 “che ha promosso ope legis a ricercatore e professore associato una vasta classe di figure orbitanti nel mondo universitario”, personale “non necessariamente qualificato”. Queste assunzioni di massa dei primi anni Ottanta hanno creato lo squilibrio generazionale di cui soffre la docenza universitaria italiana: “se non si sarà invertita la tendenza per tempo, sarà necessario assumere in massa nuovo personale per sostituire i docenti che andranno in pensione”.

Un gatto che si morde la coda, dato che di questo passo lo tzunami si ripeterà a intervalli regolari. Col risultato che alcune generazioni di brillanti ricercatori, come accade oggi, non troveranno spazio e verranno sacrificati per motivi esclusivamente demografici. Oppure saranno costretti ad andare all’estero, dove le menti giovani e brillanti trovano più spazio.

È un fatto che in altri grandi Paesi europei e negli Stati Uniti lo squilibrio demografico ha proporzioni diverse. Gli ultrasessantenni, ad esempio, sono solo il 13,3% in Francia e l’8% in Gran Bretagna. Contemporaneamente i giovani occupano, negli stessi Paesi, rispettivamente 11,6% e il 16%, mentre in Italia si fermano al 4,6%. A nulla è servito, in Italia, l’incremento del 16% del numero dei docenti avvenuta tra il 1998 e il 2004: “l’incremento è concentrato nella fascia di età che va tra i 35 e i 45 anni”. Un dato che rende evidente il lungo periodo di precariato a cui devono sottoporsi i giovani ricercatori. “La legge Moratti, con l’abolizione del ruolo di ricercatore non fa che aggravare questa situazione. – scrivono Zapperi e Labini – I dati mostrano che la deriva attuale sembra portare a un ulteriore invecchiamento dei docenti universitari”.

Ma non è ancora finita: i docenti italiani, oltre ad essere anziani, sono anche duri da mandare in pensione. In base ad “un’antica tradizione normativa”, che ha subito solo piccole modifiche dagli anni ‘30 ad oggi, è stabilito che i docenti universitari vengono messi fuori ruolo all’età di 72 anni, per poi andare definitivamente in pensione a 75 (e non a 65 come le altre categorie di lavoratori). La nuova legge Moratti abolisce la permanenza fuori ruolo e fissa a 70 anni l’età della pensione, ma la norma si applicherà solo sui nuovi assunti…

Riassumendo: docenti anziani che non vanno in pensione e giovani ricercatori che non trovano spazio nelle nostre università. Uno tzunami che presto arriverà alla costa e che ricreerà la situazione che già si era verificata negli anni Ottanta. Un sistema anomalo che va cambiato: “a nostro avviso – concludono Zapperi e Sylos Labini – serve un’inversione di rotta, con un ringiovanimento del personale accademico. Questo processo dovrebbe cominciare ora e non fra quindici anni, quando ai problemi creati dal pensionamento collettivo di un gran numero di docenti (lo tsunami) si potrà rispondere solo con una nuova onda”.


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