Lungo Apparente Casuale

Knulp, dal nome di un racconto di Herman Hesse. Bevande buone, cibi saporiti senza ricorrere a nomi high-tech o novelle cuisine, pareti bianche su cui si alternano mostre varie:locale equosolidale, coerente in ciò, e miglior libreria di Trieste per quanto riguarda la musica ed il cinema. Così, se non vi sono proiezioni o altre iniziative culturali, la sala in fondo presenta tavoli con libri, cd e dvd da farci un piccolo mutuo.

Una copertina rossa balza agli occhi: le poesie di Ligabue. Proprio così, oltre alla confezione con cinque dvd (Natale alle porte) esce ora anche il suo libro di poesie: si sfrutta il più possibile il nome, o marchio se preferite, un po’ di pubblicità sui giornali e il fatturato aumenta.

Personalmente considero Ligabue un “diesel“, ovvero un cantante dall’energia continua che procede a velocità costante, tranne certe cadute, senza mai valicare il confine e camminare nei territori della poesia; certo ha scritto alcune canzoni belle e qui, oltre alle più celebri, mi permetto di ricordare “Chissà se in cielo passano gli Who“ e “Il giorno di dolore“, dedicata a Stefano Ronzani, amico e giornalista musicale morto molto prematuramente di cancro ( canzone dedicatagli anche durante il mezzo fiasco del pompatissimo concerto al Campo Volo: quattro palchi, battage pubblicitario altissimo e qualità del suono scarsa, quando non scadente o assente – ma visibile poi in TV per chi disponesse di Mediaset Premium ).

 

La cosa che amo di più dell’artista emiliano è “Radiofreccia“, il film di cui è regista, intriso di umanità, il duro conto di più persone con la realtà dei propri giorni, con una colonna sonora molto bella di cui, al caso, vi consiglio l’acquisto nell’edizione in doppio cd, riportante i bei monologhi dei protagonisti, in particolare quello sulle canzoni che non tradiscono mai ( chi le fatte magari si, ma loro no ) e quello del protagonista che spazia fra consapevolezza, disincantata accettazione della realtà ed uno spiraglio aperto su possibili bellezze del quotidiano; e proprio lì, proprio in questo monologo risiede l’attimo in cui ho sentito il “Liga“ più vicino alla poesia o presente in essa.

 

Riguardo al suo “Lettere d’amore nel frigo – 77 poesie“ non che sia da buttare, ha qualche buon passaggio ma sfogliandolo mi sembra l’ombra delle poesie di Charles Bukowsky.

Bukowsky, credo alcuni di voi lo ricorderanno chiuso nel triangolo “alcool – scopate – cavalli“, oppure lo avrete sentito nominare nel cliché di maudit metropolitano, tanto utile alle case editrici per incrementare vendite e fatturato…Se così ne avete sentito parlare, azzerate pure. L’uomo non era di certo un chierichetto ottemperante, le componenti del triangolo sopra citato le conosceva bene, ma a ciò andava ben “oltre“, dimostrando gran comprensione della vita e umanità. E’ cosa che emerge nelle sue poesie più che nei racconti, e se le pubblicazioni dei suoi versi sono un po’ inflazionate fra Minimum Fax, Mondatori e Feltrinelli, pescare in loro può essere cosa buona. Le sue parole si fanno poesia senza ricercare dee, stelle, luna o abissi passionali: lo fanno invece attraverso un semplice parlare del quotidiano, grazie ad una penna che non ricorre ad effetti speciali; basta andare un po’ oltre l’apparenza che è in lei per annusare aria di poesia, e consapevolezza profonda, presente molto più in lui che in tanti ( ho scritto tanti, non tutti ) che la spacciano in corsi o seminari vari per acquisire piccoli poteri personali o incrementare il proprio conto in banca ( “io per amore ti insegno questo, ma tu non scordarti di passare alla cassa“ – decine o centinaia di euro rigorosamente in nero ); la saggezza raramente risiede in chi di essa fa mercimonio.

Tornando a Bukowsky, se volete approfondire vi consiglio: “Charles Bukowsky, il demone della poesia“ di Mauro Sinigaglia, edizioni Acquaviva e “ Buck e i beat “ di Jean Francois Duval, edizioni Archinto, o “Charles Bukowsky – Poesie“ Oscar Mondatori ( costa meno di due birre grandi ) o “Le ragazze che seguivamo“ Ed. Guanda ( il costo qui è sulle tre birre abbondanti ). E proprio quest’ultimo componimento lo ricordo dalla voce di Alessandro Haber ( nevrotico D.O.C. e bravo interprete di canzoni ) durante un suo recital al Palazzo Ducale di Genova.

Un quartetto jazz alle sue spalle, centinaia di persone in silenzio: le parole, i suoni da lui partivano sino a raggiungere e depositarsi dentro i presenti; un evento prezioso, conclusosi con la lettura di “Lentamente muore“ di Pablo Neruda, poesia ove l’autore cileno mette da parte quel suo impeto affidato alla natura, talvolta ridondante, e compone versi di bellezza, pregnanza ed efficacia rari. Un’invito a non rinunciare, a non fermarsi, sedendosi sulle comode poltrone dell’abitudine che t’avviluppano con la loro muffa e tu nemmeno te ne accorgi; un invito ad essere vivi, non a sopravvivere, sino alla fine: il  miglior manifesto possibile per chi crede che, molto spesso, la rinuncia è la peggior sconfitta.

Così quella serata, un evento facente parte del programma del Festival Internazionale di Poesia di Genova, la più importante rassegna di poesia in Italia, con la partecipazione di poeti di universalmente acclamati e non,  premi Nobel e musicisti di nome e spessore – Lou Reed, Ray Manzarek ( The Doors ), Lydia Lunch e molti altri – in un riuscito incontro fra poesia e musica. Il tutto organizzato non da un ente o istituzione, ma da Claudio Pozzani ed il suo staff, nonostante i cordoni della borsa ( vedi sponsor ed affini ) siano sempre più ristretti, la passione può molto. Una delle cose che mi hanno colpito di lui è il fatto che m’ha invitato a partecipare al Festival semplicemente e solamente leggendo i miei versi, senza farmi domanda alcuna su curriculum, medaglie in bacheca, pedigree e dintorni. E’ cosa ben rara, anche in ambiti ben minori.

 

Tornando a palla su Ligabue, leggete le sue poesie se proprio non ne potete fare a meno ( magari provando prima ad ascoltarne uno scorcio su www.ligachannel.com ) ma spiccate poi il salto fra le pagine di Bukowsky.

Non lasciamoci travolgere dallo sfruttamento del nome-marchio, e giù libri, film. dischi, dvd, etc per spremere le tasche di chi ama l’artista in questione, che poi magari si dipinge l’aureola con iniziative benefiche tipo “ Il mio nome è mai più “, brano contro la guerra registrato con Piero Pelù e Jovanotti. Spiego meglio: il ricavato del disco è stato ben minore, come importo, a quello che le case discografiche dei tre avrebbero dovuto pagare per ottenere lo spazio dato all’iniziativa da giornali, TV e portali vari, con indubbio ritorno pubblicitario ed aumento del fatturato dei tre artisti.

Un episodio una-tantum, la cui tematica vedo portata avanti, seppur in modo molto allargato, da Jovanotti, che pur con certi suoi gap culturali propone alcuni brani che fanno muovere il cervello più di Piero “Narciso“ Pelù, o dell’attuale macchina da soldi Ligabue.

Ed ora mi viene in mente quel 29 luglio nell’anfiteatro “Alle Ciminiere“ quando prima del sesto concerto tributo a Francesco Virlinzi, organizzato dalla madre Nica Midulla, l’ho visto arrivare per un sound-check con Niccolò Fabi e Mario Venuti.

Tranquillo, gioviale, spontaneo, senza minimamente tirarsela, come appare così è.

Cosa non da poco di questi tempi e che, se da una parte non me lo avvicinare alla cima dei miei artisti preferiti, dall’altra me lo rende umanamente più coerente, attendibile ( ben lontani i tempi de “La mia moto“, fra l’altro), e simpatico dei tanti che s’atteggiano.


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