Gli occhiali neri hanno subito rimandato a Silvio Berlusconi, quando a causa dell’uveite nel 2013 si era recato in parlamento con delle lenti nere per nascondere gli occhi. Questa volta a indossarli, in un’aula del palazzo di giustizia di Catania, è Raffaele Lombardo. L’ex governatore accusato di voto di scambio aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa, alle prese con le battute finali del processo d’appello in cui è imputato. La sentenza potrebbe arrivare a fine marzo con la procura generale che ha chiesto la condanna in secondo grado per l’ex politico a sette anni e otto mesi. Lombardo si presenta in aula affiancato soltanto da Alessandro Benedetti, avvocato che lo segue nella vicenda giudiziaria ormai da diversi anni. È lui che si occupa dell’arringa davanti alle giudici della terza sezione delle corte d’appello in un’aula deserta. Sono lontani i tempi della ressa mediatica e dei titoli in prima pagina.
Per la procura generale – l’accusa viene retta dalle magistrate Sabrina Gambino e Agata Santonocito – l’ex presidente della Regione Sicilia sarebbe stato un uomo vicino alla famiglia mafiosa dei Santapaola. Un ruolo definito «riservato» che sarebbe stato noto soltanto ad alcuni fidati componenti di sangue di Cosa nostra. Una tesi che però secondo la difesa «non coglierebbe nel segno». A soffermarsi sul punto è proprio Benedetti: «Come mai i collaboratori di giustizia chiamati dalla procura non hanno mai sentito parlare di voti dati a Lombardo?», chiede con un pizzico d’ironia il legale riferendosi ai pentiti Giuseppe e Paolo Mirabile. «Uno di loro addirittura scopre dell’inchiesta soltanto quando, trovandosi in carcere, i giornali ne parlano tutti i giorni».
«Queste persone sono state in contatti con personaggi autorevoli di Cosa nostra catanese, com’è possibile che non abbiano mai sentito parlare di voti per Lombardo? In realtà quando le cose le vogliono sapere ci riescono senza problemi», continua l’avvocato. In aula vengono citati svariati esempi sul binomio voti e mafia, molti dei quali però non si sono tramutati in condanne o processi. «C’è un intercettazione in cui Ciccio La Rocca parla di Gino Ioppolo e dice “L’ho portato all’essere umano“, ma anche Giuseppe Mirabile che cita l’appoggio elettorale dato a Pippo Limoli».
Il cuore dell’udienza sono i tentativi di smontare due presunti summit che avrebbero avuto, almeno stando alle accuse, tra i protagonisti proprio Lombardo. Il primo è stato raccontato ai magistrati dal collaboratore di giustizia Santo La Causa, per il tramite di alcune confidenze ricevute dal boss Carmelo Puglisi che le avrebbe ottenute, a sua volta, da Raimondo Maugeri. Al faccia a faccia ci sarebbe stato quest’ultimo in compagnia dell’anziano capomafia di Caltagirone Ciccio La Rocca. «È un episodio smentito documentalmente – incalza Benedetti – non è mai esistito. In quella finestra temporale questi soggetti non si sono mai incontrati». Già nel 2012, anno del pentimento e delle rivelazioni di La Causa, i legali di Lombardo avevano definito le rivelazioni «grottesche e prive di fondamento».
Il secondo summit che viene citato in aula è invece quello raccontato più di recente da Rosario Di Dio. Presunto capomafia tra Ramacca e Castel di Iudica che ha deciso di parlare con i magistrati pur non essendo ufficialmente un collaboratore di giustizia. Nei suoi verbali sono finiti quasi esclusivamente i fratelli Lombardo e un presunto incontro con l’ex reggente di Cosa nostra Angelo Santapaola, ucciso in un regolamento di conti interno nel 2007. «Di Dio ha mentito», taglia corto Benedetti che poi elenca alla corte intercettazioni e punti che secondo la difesa sarebbero poco chiari. Come di consuetudine, l’ultimo a prendere la parola in aula è stato proprio l’ex presidente della Regione che ha reso spontanee dichiarazioni: «Vi prego di rivedere il contenuto e le motivazioni degli incontri di cui parla Di Dio. Faccia a faccia che non servono a nulla ma solo a compromettere due persone, almeno stando alla logica di Di Dio. Io e mio fratello Angelo».
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