Depositato il documento in cui i giudici spiegano il perché del reato di associazione mafiosa a carico dell'imprenditore. Secondo i togati, il clan Laudani avrebbe contribuito con «notevoli capitali all'espansione della catena Despar». Ma anche a convincere i testimoni del processo a non accusare il fondatore di Aligrup
Le motivazioni della condanna a Sebastiano Scuto Il re dei supermercati finanziato da Cosa Nostra
Meno di cento pagine. Sono bastate ai giudici della corte d’appello di Catania per motivare la nuova condanna, a otto anni per associazione mafiosa, dell’imprenditore Sebastiano Scuto. Il 75enne che a cavallo degli anni ’90 è diventato il re dei supermercati ai piedi dell’Etna e che oggi si vede attribuire un nuovo marchio di mafiosità. Per raccontare la sua scalata ai vertici dell’economia siciliana, i togati non utilizzano giri di parole. «Deve definirsi comprovato come la famiglia mafiosa Laudani abbia finanziato le attività di impresa di Scuto mediante l’apporto di notevoli capitali». Su questo passaggio non aveva avuto peli sulla lingua nemmeno il collaboratore di giustizia Giuseppe Laudani, che aveva spiegato come la cosca «dava contributi economici […] nell’espansione della catena Despar sul territorio». Il ruolo della mafia si sarebbe allargato, secondo i racconti di Laudani, anche quando si presentavano delle difficoltà per rilevare punti vendita o comprare terreni sui quali costruirli: «Intervenivano noi naturalmente», aveva detto agli inquirenti. «Definitivamente accertato», per i giudici etnei, come Scuto avrebbe messo a disposizione del clan le immagini degli impianti di video sorveglianza degli esercizi commerciali che subivano rapine, «al fine di accertare e punire i colpevoli».
La nuova sentenza era arrivata a ottobre 2015, dopo l’annullamento con rinvio da parte della corte di Cassazione. I giudici ermellini avevano stoppato la prima condanna in appello a 12 anni. Il nodo centrale che non aveva convinto la suprema corte riguardava l’espansione palermitana a braccetto con Cosa nostra, secondo l’accusa del procuratore generale Gaetano Siscaro. Un passaggio che nella nuova sentenza viene definito «privo di evidenze probatorie». Il parallelismo mancato è quello con l’imprenditore mafioso Giuseppe Grigoli. Gestore, in provincia di Trapani e Agrigento dei soldi del super latitante Matteo Messina Denaro nel settore della grande distribuzione sotto l’insegna Despar. Gli investimenti e la protezione in favore di Scuto avrebbero, continua la sentenza, «alterato le regole della concorrenza nel settore economico della distribuzione alimentare nel territorio catanese». Per offrire i propri servigi all’imprenditore, il clan dei Laudani si sarebbe attivato anche durante il processo di primo grado: «Deve ritenersi certo – scrivono nel documento – il fatto che il clan si adoperò per aiutare l’imputato ad uscire assolto». Boss e gregari avrebbero avvicinato alcuni testimoni per convincerli a dichiarare il falso nelle aule giudiziarie di piazza Verga.
Nelle pagine della sentenza, i giudici ricostruiscono cronologicamente il periodo in cui Scuto avrebbe fatto affari con Cosa nostra. Un rapporto che sarebbe iniziato nel 1987 per poi essere troncato soltanto nel 2009 con la denuncia, da parte dell’imprenditore, nei confronti dell’allora reggente Sebastiano Laudani. In quel periodo la cosca avrebbe manifestato la volontà di sequestrare il figlio di Scuto, Salvatore, per riavvicinare l’impresario puntese alla cosca. Pochi anni prima, il protagonista principale di questa vicenda avrebbe incontrato il reggente mafioso nel silenzio del cimitero di San Giovanni La Punta. In quella circostanza, come rivelò il collaboratore Giuseppe Laudani, Scuto avrebbe «ribadito il proprio attaccamento alla famiglia affermando che era sempre nel cuore e non l’aveva mai dimenticata».
Tra le vicende più delicate e intricate c’è anche quella, ancora irrisolta, relativa alla confisca dell’immenso patrimonio. Una storia piena di ombre che ha subito diversi scossoni. Per il collegio giudicante, la linfa vitale di Aligrup – azienda nata nel 1987 e concessionaria del colosso Despar in Sicilia orientale – non sarebbe integralmente da attribuire alla mafia. La società, pur essendo ritenuta la lavatrice del denaro dei Laudani, avrebbe infatti beneficiato anche dei capitali leciti di Scuto, tra cui l’eredità del suocero, un ricco imprenditore agrumicolo. La percentuale della confisca viene quindi confermata nella cifra del quindici per cento delle quote societarie. Un numero a cui si arriva anche dopo un’offerta di acquisto di alcune quote da parte di Soipa spa, nel 2010. Una proposta che, secondo il pg Siscaro, celerebbe l’interesse di Scuto a rientrare in possesso di parte dell’azienda e su cui i giudici hanno a lungo discusso nei vari gradi del procedimento. Per poi confermare la percentuale di confisca nel nuovo processo d’appello.