«Dobbiamo creare nuovi modelli, gli asset della Sicilia sono a favore del turismo e dell’arte». Mancava meno di un mese al Natale, quando Antonio Pogliese, intervenendo a un evento, rilanciava il sogno di una terra che potesse vivere di Etna, mare, buon cibo e attrazioni culturali. Nella sua testa tuttavia, stando a quanto emerge dall’inchiesta Pupi di pezza che lo ha portato oggi ai domiciliari insieme ad altre otto persone, c’erano già il timore di finire prima o poi tra le maglie della procura per questioni legate proprio a imprese attive sulla scena economica siciliana. Il 74enne – noto non solo per essere il padre del sindaco di Catania, ma anche perché titolare di un importante studio di consulenza societaria – è ritenuto il vertice dell’associazione a delinquere che, secondo i magistrati, sarebbe stata specializzata in bancherotte fraudolente.
Pogliese vanta una carriera ricca di incarichi in realtà prestigiose. Dalla presenza nel consiglio di amministrazione della Fondazione Gruppo Credito Valtellinese, frutto anche di un’esperienza trentennale nel settore bancario, alla nomina a componente del Cda dell’Università di Catania. Nel suo passato c’è anche – ed è lo stesso Pogliese a sottolinearlo con una nota in calce al curriculum – la nomina, nel 1982, ad «amministratore antimafia» delle aziende Pam Car srl e Renò Sicilia srl sottratte al boss Nitto Santapaola. Mentre più di recente si ricordano la consulenza per la realizzazione del centro commerciale Etnapolis, il supporto a un project financing di oltre un miliardo e mezzo per un sistema di parchi fotovoltaici, ma anche la consulenza per la Sac, la società che gestisce l’aeroporto di Catania, di cui Pogliese ha già calcolato il patrimonio. Senza contare la presenza nel consiglio dell’ordine dei commercialisti, a cui è iscritto dal lontano 1969.
La sua ascesa adesso deve però fare i conti con le accuse dei magistrati della procura etnea. Secondo i quali Pogliese e alcuni soci del proprio studio avrebbero offerto a imprese al collasso, con debiti anche superiori ai cento milioni di euro, speciali servizi per evitare il fallimento o quantomeno far sì che esso avvenisse solo dopo avere trasferito ad altre società riconducibili agli stessi amministratori tutti gli elementi patrimoniali positivi memtre a essere lasciato all’asciutto era l’erario. Alchimie che si sarebbero basate su procedure illecite. «Tutte le obbligazioni verso lo Stato vengono viste come un ostacolo che si può saltare», scrive il gip. A prestare metaforicamente le gambe e concretamente la firma a Pogliese sarebbe stato soprattutto Enrico Virgillito, scelto come liquidatore fittizio e ritenuto dagli inquirenti palesemente inadeguato. Una mera testa di legno, in pratica.
Virgillito è indagato insieme al padre Salvatore, finito anche lui ai domiciliari. Stando alla ricostruzione dei finanzieri i due sarebbero stati retribuiti mensilmente con modiche cifre, in cambio della disponibilità a fare da prestanomi e assumersi eventuali risvolti penali e civili. Una soluzione che il commercialista avrebbe ideato per schermare da ogni responsabilità i propri clienti, ma che a tratti si sarebbe rivelata rischiosa per la frenesia dei due nel reclamare le paghe. «Gli dico: dottor Pogliese, a me servono soldi – promette Virgillito al figlio -. Di quello che lei mi fa fare il 50 per cento me lo prendo io e il 50 per cento se lo prende lei. Mi deve far fare però cose che che maturano, dobbiamo prendere soldi perché mi servono soldi subito», continua l’uomo millantando di essere a conoscenza di collegamenti tra il commercialista e presunte tangentopoli del passato. Dal canto suo Pogliese non avrebbe nascosto la preoccupazione secondo cui, nel caso di controlli sulle società in liquidazione affidate al giovane Virgillito, si potesse risalire al proprio studio. «Quello è cretino», dice in un’occasione Pogliese. Per poi poco dopo essere d’accordo con il proprio socio Michele Catania sul fatto che, guardando nel passato di Virgillito, uscirebbe «che ovviamente non è liquidatore della Fiat».
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