Sulle coste balcaniche, al momento di imbarcare la droga, l'organizzazione guidata da Moisi Habilaj, cugino dell'ex ministro albanese, avrebbe potuto contare sulla complicità delle forze dell'ordine. Mentre le spiagge di destinazione venivano scelte dopo attenti sopralluoghi, tra Riposto, Acireale e il Siracusano
La marijuana dall’Albania ai porti della Sicilia orientale «Hai visto il furgone della polizia? Qua sono tutti nostri»
«L’hai visto il furgone della polizia che è passato?». «Quello con le luci bianche? È quello nostro?». «Sono tutti nostri qua!». È la notte del 6 maggio del 2015 e di fronte alle coste albanesi, a largo di Porto Palermo, il peschereccio Fatima è pronto a caricare un importante carico di marijuana da spedire in Sicilia. A bordo Moisi Habilaj, cugino dell’ex ministro dell’Interno albanese ritenuto dagli inquirenti italiani il vertice del gruppo criminale che organizzava il traffico di stupefacenti, prova a tranquillizzare Rosario Giuliano, il proprietario dell’imbarcazione partita da Riposto per prendere 880 chili di droga e riportarli indietro. Habilaj sale sul Fatima e impartisce ordini, con precisione e tranquillità. Una calma che, stando alle intercettazioni captate dalla Guardia di finanza etnea, nasce dalla consapevolezza che i poliziotti albanesi che dovrebbe controllare sarebbero invece suoi complici. L’uomo, in particolare, mette in guardia Giuliano sulla rotta da intraprendere per tornare in Italia senza sconfinare nella vicina Grecia. «Mi ha chiamato il poliziotto che mi ha spiegato, per non avvicinarti alle acque greche… devi andare sempre dritto, dopo 6-7 miglia non si vedono le luci, devi camminare ancora 2-3 miglia, poi entri. Non devi sbagliare, fratello mio».
Gli affari sull’asse Albania-Sicilia andavano così: un continuo via vai tra il Paese balcanico e il Sud est dell’Isola da parte di Habilaj e degli altri affiliati al suo gruppo. Incontri con acquirenti catanesi e ragusani, come Antonio Riela e Angelo Busacca. Il primo sarebbe referente su Catania per diverse famiglie mafiose interessate all’acquisto della marijuana. Il secondo è un commerciante all’ingrosso di frutta a verdura al mercato di Vittoria, già arrestato nei mesi scorsi per aver sfruttato i lavoratori nelle sue serre. Ed è proprio tra Catania, Lentini, Augusta, Modica e Vittoria che si muovono i soggetti arrestati due giorni fa dal Gico della Guardia di finanza di Catania, su disposizione della Procura etnea. Un business fiorente, messo in crisi però dai sempre più frequenti sequestri da parte delle forze dell’ordine italiane. È lo stesso Moisi Habilaj, a un certo punto, a fare i conti delle entrate e delle uscite. I soldi che aspetta dai catanesi ammonterebbero a 1 milione 670mila euro, mentre i debiti che deve saldare in Albania arriverebbero a 600mila euro. E tra questi quelli che vengono definiti «più problematici» sono «Renato e lo Stato». Il primo sarebbe uno dei fornitori albanesi. Ma è soprattutto sul secondo che si concentrano le curiosità degli inquirenti, secondo cui, dietro la parola «Stato» si nascondono le forze di polizia albanesi assoldate a libro paga di Habilaj.
Ma c’è di più. Sempre passando in rassegna i debiti da onorare, il presunto capo dell’organizzazione fa il nome di Saimir. «Trenta – dice Habilaj – glieli devo portare a Saimir». I magistrati italiani annotano che si allude probabilmente al cugino Saimir Bashkim Tahiri, ex ministro dell’Interno e deputato. Un nome pesante che torna anche in un altro passaggio dell’ordinanza, quando viene ricordato che uno dei viaggi di Habilaj, in compagnia del sodale Sabaudin Celaj , tra l’Albania e la Sicilia viene fatto a bordo dell’Audi A8 intestata proprio a Tahiri, quando era ministro. La stessa accusa era stata sollevata nel recente passato in Albania per una trasferta dei trafficanti in Grecia e in quell’occasione il politico si difese sostenendo di aver venduto in nero l’automobile al cugino.
Le ripetute visite in Sicilia, oltre che agli incontri per trattare (che si svolgono soprattutto nel parcheggio dell’ospedale di Lentini, al mercato di Vittoria, a Modica e nel quartiere Pigno di Catania), servono per effettuare sopralluoghi utili a trovare le spiagge e i porti migliori dove attraccare. Una preoccupazione alimentata dalla fallimentare spedizione che giunge ad Augusta, nella notte del 25 ottobre del 2013. Un gommone con a bordo quattro uomini deve scaricare 1.650 chili di marijuana nella spiaggia detta Baia del silenzio, tra Brucoli e Agnone Bagni. Ma a rovinare i piani degli albanesi arrivano i carabinieri, avvisati da una segnalazione. Inizia una fuga tra gli scogli che costa a uno dei trafficanti, Celaj, il ferimento a un piede e lunghe ore nascosto per non essere preso. Ad aiutarlo, secondo quanto ricostruito dalle intercettazioni, è il custode di un caseggiato, amico di uno degli acquirenti catanesi della droga, che per evitare la cattura lo fa salire a bordo della sua auto. «Me l’ha portato il Signore quell’uomo – dice Celaj una volta messo in salvo – sono stato nascosto tutta la notte, poi quando se ne sono andati, ho saltato un cancello e mi sono fatto male, ho fatto due, tre passi ed è arrivato questo qui». In questa occasione Habilaj si lamenta dello scarso interesse dei catanesi per l’organizzazione dello sbarco. «Se avessi avuto un kalashnikov li avrei stesi tutti, bam bam bam», dice riferendosi ai carabinieri.
Ecco perché, per i carichi successivi, i sopralluoghi si fanno più attenti: vengono monitorati i porticcioli di Pozzillo, Santa Maria la Scala, Santa Tecla e Riposto, ma anche la spiaggia di Praiola e quella di Sant’Anna, sempre a Riposto. Fino ai primi mesi del 2017, quando l’organizzazione, ancora operativa nei suoi principali elementi, nonostante i sequestri subiti, prova a organizzare una nuova spedizione via mare che sarebbe dovuta arrivare a Portopalo di Capo Passero, dove la droga doveva essere stoccata in un magazzino per poi essere venduta ai catanesi. Un piano stoppato dagli arresti dell’operazione Rosa dei venti che ha scatenato un vero e proprio terremoto politico in Albania, dove le opposizioni chiedono l’arresto dell’ex ministro Tahiri e il premier Edi Rama assicura: «Gli albanesi hanno bisogno di sapere la verità, la giustizia deve andare fino in fondo».