Per il parroco antimafia di Bagheria, da anni schierato contro Cosa nostra, il rapporto tra mafia e Chiesa seppur controverso sta mutando. Le condizioni per un cambiamento ci sono ma si «deve lavorare per eliminare gli aspetti che si prestano a ogni collusione e ambiguità»
I santi, i boss e gli inchini durante le processioni Don Stabile: «Purificare religiosità popolare»
Nel rapporto tra mafia e Chiesa le premesse per un cambiamento «ci sono e ci devono essere». Ne è convinto don Michele Stabile, il parroco antimafia da anni schierato contro Cosa nostra, uno dei partecipanti alla storica marcia antimafia Bagheria-Casteldaccia del 26 febbraio del 1983. Stamane, in occasione della conferenza «L’antimafia della Chiesa – la sua evoluzione dal XX secolo ad oggi, da Sturzo a Papa Francesco», al cinema Rouge et Noir del capoluogo siciliano, si è parlato proprio del rapporto tra Cosa nostra e il mondo cattolico. Una relazione che puntualmente assurge agli onori della cronaca in occasione delle processioni religiose quando la statua del santo patrono fa sosta davanti l’abitazione di qualche boss mafioso. Come quando nel 2012 il corteo deviò dal percorso originario per sostare sotto la casa del capomafia Salvatore Profeta, nel quartiere Guadagna, a Palermo. Un costume diffuso, da Palermo a Catania, ma che secondo padre Stabile sta mutando.
«Il rapporto tra mafia e Chiesa è cambiato e sta cambiando – ha detto -. Prima, durante le processioni, era una prassi normale sostare alcuni minuti davanti alle abitazioni dei vecchi superiori delle confraternite. Un modo per rendere omaggio ai presidenti delle confraternite che inserivano in questo rito anche le case di alcuni notabili. Chiaramente, poiché il mafioso veniva considerato un notabile all’interno di una società locale, allora anche il suo portone diventava un punto di sosta». Un’usanza antica è difficile da debellare, anche se esistono dei regolamenti. Prima delle processioni, infatti, si svolgono degli incontri ma è un lavoro difficile, perché tocca una dimensione legata alla religiosità popolare che ha poco il senso di appartenenza alla Chiesa e più alla confraternita. «C’è uno scollamento tra devozione e morale – ha proseguito – alcuni di questi potrebbero essere confrati festaioli ma senza necessariamente un impegno etico».
I parroci ci provano, invitando i membri delle confraternite a una sorta di formazione ma, a quel punto, molti spariscono perché per alcuni di questi «la processione assume un valore di affermazione a livello personale e sociale e non religioso. Nei quartieri popolari a volte gli organizzatori sono figure deboli ma acquistano visibilità appena diventano attori di questa festa, un modo per contare nel proprio quartiere». Le premesse per un cambiamento al momento paiono deboli ma ci sono e devono partire da un progetto pastorale che sia attento alla religiosità popolare. «Il nostro problema è purificare la religiosità popolare salvaguardandola, senza eliminarla. Purificarla significa mettere dentro Gesù Cristo e il Vangelo e togliendo quegli aspetti che si prestano a ogni collusione e ambiguità. Invece molte volte – ha concluso – c’è una religiosità fatta più di cerimonialità pubblica».