I due poliziotti infedeli e i loro legami con la mafia «Può essere sbirro quanto vuoi, ma è un amico»

Ci sono almeno due poliziotti coinvolti nell’inchiesta sul tentativo di ricostruire la Stidda, la falange mafiosa che per anni ha terrorizzato la Sicilia sud-orientale. Due pedine in uno scacchiere ben rodato, quello che secondo l’indagine Xydi avrebbe ruotato intorno all’avvocata Angela Porcello al compagno Giancarlo Buggea. Si tratta dell’ispettore Filippo Pitruzzella e dell’assistente capo Giuseppe D’Andrea, entrambi in servizio al commissariato di polizia di Canicattì. Per loro l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Ma i due potrebbero essere solo la punta di un iceberg fatto di relazioni intrecciate tra i presunti stiddari e le forze dell’ordine. Nelle pieghe dell’indagine, sono ancora al vaglio le posizioni di agenti e poliziotti penitenziari che, a vario titolo, hanno dato una mano a tenere viva la rete dei collegamenti tra chi sta in carcere e chi da fuori avrebbe portato avanti gli interessi dell’organizzazione. 

«A quello del commissariato, quello è un amico… può essere sbirro quanto vuoi… però se io gli domando una cosa, gliela domando perché già l’ho messo alla prova». Parlava così Angela Porcello riferendosi a Pitruzzella. L’ispettore, tra i due poliziotti finiti in manette nel corso del blitz, pare fosse quello più fidato, il conoscente di lunga data. Non solo avrebbe fatto dei controlli per conto del clan sul database delle forze dell’ordine per vedere se c’erano indagini in capo di affiliati e sodali, ma per l’avvocata e il compagno si occupava anche di disbrigare alcune pratiche burocratiche particolarmente spinose, come il rinnovo del passaporto di Giuseppe Puleri, della famiglia di Campobello di Licata, pochi giorni prima del suo arresto. Nei numerosi incontri tra l’avvocata e il poliziottospesso tenuti nello studio della donna, i discorsi spaziavano dalle modalità di controllo da parte delle forze dell’ordine del capomafia Lillo Di Caro, ai domiciliari, fino all’interdittiva antimafia in arrivo per Giancarlo Buggea e per la stessa Angela Porcello, che sarebbero stati debitamente avvertiti dall’amico poliziotto.

E poi c’era Giuseppe D’Andrea. Con lui il rapporto è giovane, è stato l’assistente capo della polizia ad avvicinarsi per primo alla coppia, per un problema relativo a un’attività commerciale da lui appena rilevata. D’Andrea aveva avvicinato Buggea chiedendogli di organizzare un incontro con l’avvocata. Avvocata che tuttavia era stata messa in guardia da Pitruzzella sulla poca affidabilità del collega. «Tagliare i ponti! Tagliare i ponti! – suggeriva – Questo tizio qua, siccome è affamato di soldi, arriva al punto che a si può vendere fino al culo». E ancora «doveva essere pure arrestato. È miracolato perché, per scadenza dei termini, se ne è uscito. Trasferito a Catania». Intanto, secondo quanto emerso dalle indagini, l’apporto di D’Andrea non sarebbe stato da poco. Come quando, durante una delle tante riunioni in studio, avrebbe rivelato a Buggea e a un esponente della famiglia mafiosa di Favara «quanto da lui appreso da un collega circa le risultanze presenti in Sdi (il sistema informatico delle forze dell’ordine ndr) sul conto dell’imprenditore Peppe Fonti (non indagato, ma in rapporti con i due pregiudicati); risultanze che costituiscono all’evidenza notizie d’ufficio che dovevano rimanere segrete».

Infine la polizia penitenziaria, con diversi agenti infedeli su cui si sta ancora cercando di fare luce. Scrivono gli inquirenti: «All’interno degli istituti penitenziari (ivi compresi quelli ove vengono allocati i detenuti sottoposti al 41 bis), nel corso dell’indagine sono stati registrati – in diverse occasioni e su più livelli – preoccupanti spazi di gravissima interazione fra detenuti, fra detenuti e l’esterno nonché fra detenuti e appartenenti alla polizia penitenziaria; interazione che l’attuale sistema penitenziario non è riuscito, in tali momenti, a evitare». Un agente del carcere di Agrigento, durante un colloquio tra la legale e il boss storico della provincia agrigentina Giuseppe Falsone, detenuto in regime di carcere duro a Novara, aveva consentito a Porcello, in collegamento col boss dalla città dei Templi, di utilizzare il proprio smartphone durante l’incontro virtuale. Un’altra guardia, sempre ad Agrigento, aveva avvertito telefonicamente l’avvocata dell’imminente spostamento del suo assistito Giuseppe Puleri, anche lui al 41bis. 

«Ma, su questo versante – si legge nelle carte dei magistrati – i fatti certamente più preoccupanti registrati durante le indagini hanno visto protagonisti efferati uomini d’onore detenuti (tra cui appunto Giuseppe Falsone), i quali, benché sottoposti al regime speciale del 41 bis, riuscivano comunque a ricevere e inviare messaggi da e verso i sodali in libertà, oltre che verso altri capicosca anch’essi sottoposti al medesimo carcere duro».


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