L’avvocata che era diventata «cosa nostra» del clan Sui rivali suggeriva: «Il male si elimina alla radice»

Messaggera, organizzatrice, consigliera, suggeritrice e ispiratrice. Svestita della sua toga, l’avvocata Angela Porcello avrebbe incarnato tutti questi ruoli per l’associazione mafiosa dell’Agrigentino. Cinquant’anni, iscritta all’albo dal 1996, c’è anche lei tra le persone finite indagate nell’operazione antimafia Xydi. Il suo studio in viale Rosario Livatino a Canicattì per due anni è stato il luogo in cui si sono tenute tutte le riunioni tra gli esponenti di vertice di Cosa nostra provenienti da ogni parte della Sicilia. Un luogo ritenuto – erroneamente – inaccessibile alle iniziative investigative e scelto dopo le numerose rassicurazioni della nota penalista che è anche la compagna dell’uomo d’onore già condannato per mafia Giancarlo Buggea. «Angela non è che mi piaceva. È stato un bisogno, un’occasione. E non me la sono fatta scappare», dice l’organizzatore del mandamento di Canicattì parlando in macchina con una donna con cui ha una relazione clandestina.

E l’occasione, in effetti, ci sarebbe stata. Non tanto per la sala che Porcello gli avrebbe riservato nel suo studio legale da usare come ufficio, ma per l’apertura della donna «a mettere a disposizione il suo ruolo di avvocata per realizzare finalità tipiche di Cosa nostra». Messaggi di detenuti al 41 bis da portare fuori dal carcere, l’accesso a informazioni di appartenenti alla polizia giudiziaria su attività di indagine in corso, e il tentativo di indirizzarle contro componenti di Cosa nostra della fazione opposta. Dopo avere diramato le convocazioni per le riunioni nel suo studio, con telefonate in cui parla di «documenti» e «contratti da firmare», a questi incontri partecipa anche comportandosi «al pari dei mafiosi presenti», si legge nell’ordinanza. E si parla di ospiti del calibro di Luigi Bonocore (capo della famiglia mafiosa di Ravanusa), Giuseppe Sicilia (capo della famiglia di Favara), Giovanni Lauria (capo della famiglia mafiosa di Licata), Simone Castello (uomo d’onore di Villabate, già fedelissimo di Bernardo Provenzano), e Antonino Chiazza (esponente di vertice della rinata Stidda). 

Per rendere lo studio impermeabile, l’avvocata avrebbe rinunciato anche a segretari e dipendenti. «Venti persone al giorno mi telefonano per venire a lavorare qua, ma io non gliene metto. Così – assicura la legale ai sodali – degli incontri non lo sa nessuno».  Altra accortezza per mantenere la riservatezza degli incontri, sarebbe stato verificare di volta in volta che non ci fosse la cugina collega di studio. Tutto inutile visto che proprio in quelle stanze le cimici degli inquirenti hanno registrato centinaia di ore di intercettazioni che hanno fornito una «perfetta sintesi della dialettica mafiosa» – fatta di strategie, sussurri, sotterfugi, mezze parole, alleanze, allusioni e doppiogiochismi – direttamente dalla viva voce degli appartenenti all’associazione mafiosa dell’intera Sicilia. 

E non solo. A frequentare lo studio, non da cliente, sarebbe stato anche l’ispettore di polizia Filippo Pitruzzella (anche lui tra gli indagati). L’uomo, in servizio al commissariato di Canicattì, è stato intercettato mentre parla con l’avvocata Porcello di vicende e strategie del sodalizio mafioso e la informa anche di attenzioni che le forze dell’ordine avrebbe indirizzato verso Buggea. «Occhio! Allora, io quando ti dico mezza cosa, mi devi capire al volo». I due, finiscono poi a parlare anche del progetto di fare terra bruciata nel gruppo mafioso contrapposto. «Già uno dentro il cofano c’è andato a finire – dice Pitruzzella – Io gli ho detto a una persona: “Ricordati che appena tu cominci ad avere i primi starnuti, se non si prende subito la Vivin C poi ti viene la bronchite, poi arriva l’acqua nei polmoni». Un funereo excursus per cui l’avvocata suggerisce: «Il male si elimina alla radice». 

Parole che non lasciano molto spazio all’interpretazione. A differenza di quelle che la legale ha raccolto da uno dei suoi assistiti di punta, il boss ergastolano agrigentino Giuseppe Falsone che l’ha definita «una cosa nostra». «Non sono riuscita a capire con chi ce l’ha o per che cosa – riporta lei all’anziano e autorevole professore Lauria – Mi ha detto: quando uno pulisce i carciofi, resta il cardo. Questi cardi, se se li mangia in pastella fanno acitu (acidità di stomaco, ndr); se li mangia in pastella sono digeribili; se li mangia bolliti sono amari, se li fa assassinati con l’aglio, gli fanno danno». La metafora del carciofo, da trattato di sociologia delle mafie ridotto a qualcosa che somiglia di più a una pagina di un libro di cucina. Il senso, comunque, sarebbe stato quello di veicolare al capo della famiglia mafiosa di Licata il progetto criminale di Falsone: «Richiamare – scrivono gli inquirenti – l’intera cosca agrigentina all’osservanza della più profonda essenza della mafia siciliana che, approfittando della necessità di occupare gli spazi lasciati vuoti dallo Stato, spazza via tutte le altre realtà criminali assumendo un ruolo egemone di potere incontrastato sull’intero territorio».


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