Destabilizzati dai continui arresti ma capaci di rigenerarsi in tempi rapidi come delle salamandre. La famiglia di Cosa nostra a Catania, seppur tra tante difficoltà, avrebbe cercato di rimettere in moto gli introiti delle estorsioni dopo gli arresti, risalenti al 2017, del blitz Chaos. Soldi e dettagli del pizzo messi nero su bianco in una corposa lettera, «tanta così», che Luca Marino, responsabile mafioso nel rione San Giovanni Galermo, avrebbe mandato nel 2018 al suo successore nel ruolo Carmelo Renna. Un elenco di vittime e beneficiari: «Soldi che vanno a tizio, al Gigante del Villaggio, a Santo e a ziu Ciuzzu». I dettagli di questa storia fanno parte dell’indagine Agorà che ieri, con 56 misure cautelari, ha svelato la riorganizzazione della mafia in Sicilia orientale. «Io mi sono segnato i noccioli più importanti», raccontava Renna durante un incontro nell’officina gestita da Salvatore Rinaldi in via Zia Lisa a Catania. Riorganizzare le estorsioni però sarebbe stato particolarmente complicato per tre motivi. Oltre agli arresti, bisognava fare i conti con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Bonanno e con diversi elenchi cartacei in cui erano trascritti i nomi delle vittime. Pizzini che avrebbero confuso le acque su cosa spettava a chi perché finiti in mano a più persone della stessa famiglia mafiosa. «È giusto che mangiamo tutti», dicevano gli indagati intercettati.
Tra le estorsioni che i Santapaola avrebbero deciso di riattivare c’era quella al Bingo Family di Misterbianco. Attività che in passato versava il pizzo a Cosa nostra oltre ad assicurare, secondo la ricostruzione dei documenti, la gestione del tabacchino e del grande parcheggio esterno. Grazie a un’intercettazione risalente al 2019 gli investigatori capiscono che sull’affare ci sarebbero stati però anche i fratelli Alessandro, Marco e Mario Strano di Monte Po, un tempo affiliati a Cosa nostra ma poi transitati con gli storici nemici dei Cappello. La questione è particolarmente delicata tanto da diventare oggetto di discussione anche tra i pezzi grossi di Cosa nostra in carcere. Gli unici, secondo gli indagati, dotati del peso criminale per potere autorizzare il passaggio dell’estorsione dai vecchi padroni dei Santapaola ai Cappello. «Se me lo manda a dire Andrea o Daniele Nizza – spiegava il referente dei Nizza Salvatore Schillaci ai sodali – io con tutte e due le mani gliela do». Il passaggio di consegne, stando alla ricostruzione nell’ordinanza, si consumò ugualmente e pure con l’uso della forza. Da un lato il boss dei Cappello Massimiliano Salvo ‘u carruzzeri e dall’altro degli uomini, a quanto pare inviati dagli Strano, che la sera del 30 gennaio 2019 si sarebbero impossessati del parcheggio con una spedizione armi in pugno. «Si sono presi il posteggio del Bingo – raccontava un uomo dei Santapaola – hanno buttato le persone fuori. Erano con le pistole addosso. Loro, per fare un’azione di questa, vuol dire che qualcuno li ha autorizzati a farla».
«È una cosa discussa in galera», ipotizzava Luigi Ferrini, indicato come il responsabile di Cosa nostra nei centri pedemontani. La gravità del gesto restava: «Qua state toccando la famiglia – dicevano gli indagati – Qua è di Ciccio Santapaola e voialtri non lo potete toccare». Scavando nella questione emerge l’ipotesi che dietro il via libera ci sarebbe stato un fraintendimento con Giovanni Nizza, detto Banana. L’uomo, detenuto da anni, avrebbe mandato a dire di non essere interessato all’estorsione al Bingo, lasciando così via libera agli altri gruppi criminali. «La discussione di Giovanni è vera – spiegava Rinaldi – ma quando si è parlato c’era un’altra persona presente, un altro amico nostro era seduto quando Giovanni si è fatto fottere». Gli uomini dei Santapaola intercettati sono un fiume in piena. Parlano di una lettera, che sarebbe stata recapitata a Marco Strano da uno dei nipoti di Andrea Nizza, ma anche dei colloqui in carcere in cui Giovanni Nizza avrebbe spiegato alla moglie di non avere mai parlato della questione Bingo. «Gli devi dire – diceva alla donna – “come ti prende mio marito di scanna“». Per risolvere la questione si ipotizzò anche l’organizzazione di un summit tra i Cappello e gli affiliati ai Santapaola. Faccia a faccia che però non si è mai tenuto per il timore di una retata delle forze dell’ordine: «Fino a quando non esce chi deve uscire, facciamo metà e metà». Strategia che poi si sarebbe concretizzata dopo un incontro chiarificatore tra Rinaldi e Concetto Bonaccorsi. Una cogestione che, secondo i magistrati, avrebbe fruttato ai Santapaola non meno di 3800 euro al mese.
Tra gli obiettivi del gruppo mafioso sarebbe rientrata anche la gestione del ciclo dei rifiuti, con particolare riferimento ai territori di Mascalucia e Catania. «Soldi della spazzatura» che si sarebbero «persi» e che sarebbero dovuti tornare ad «arrivare». Gli inquirenti riportano nelle carte dell’inchiesta i nomi di due società, ossia la Mosema e la Dusty. Il gruppo cita le dichiarazioni del pentito Bonanno su questo specifico argomento, sottolineando le presunte difficoltà nel riallacciare i rapporti con gli imprenditori, temendo possibili arresti. «Questa signora è da un anno che non si fa sentire – spiegava Rinaldi – la possiamo beccare in qualsiasi momento ci andiamo». Prima di ogni eventuale incontro sarebbe stato però fondamentale conoscere una parola segreta da riferire all’imprenditrice, identificata nei documenti in Rossella Pezzino. «Gli diciamo la parola e siamo apposto», aggiungevano. Durante l’organizzazione della spedizione, però, Schillaci finisce in manette facendo saltare il piano di avvicinamento. La parola segreta? Gli indagati spiegano di averla appresa ma nei documenti non viene mai indicata. Contatta da MeridioNews la società Dusty preferisce non replicare dichiarandosi del tutto estranea ai fatti.
Aggiornamento ore 8.50 del 17 giugno 2022 – Riceviamo e pubblichiamo da Rossella Pezzino de Geronimo, amministratrice della società Dusty, e da Antonino Lupoi, penalista di fiducia dell’azienda
Apprendo che nell’ambito dell’inchiesta antimafia “Agorà” alcuni mafiosi avrebbero dichiarato che la sottoscritta sarebbe stata in qualche modo disponibile a cedere ad estorsioni da parte di gruppi malavitosi operanti sul territorio. A riprova di questo gli stessi indicano la conoscenza del fatto che in pausa pranzo, come quasi tutti gli imprenditori e lavoratori della zona industriale, frequento una trattoria del luogo, cosa nota a tutti. Respingo con sdegno questo volgare tentativo di creare confusione essendo la mia storia personale e quella quarantennale della Dusty che ho fondato, esempio nazionale ed internazionale di rigore ed impermeabilità assoluta nei confronti di ogni illegalità possibile; essendovi a riprova decine di denunce da me presentate tanto che è assolutamente nota l’inavvicinabilità rispetto ad ogni richiesta che sia meno che lecita. Altro che parole d’ordine e menzogne colossali: Dusty ed i suoi amministratori sono sempre stati inavvicinabili e sempre lo saranno e non tollereremo insinuazioni che tendono a far credere che le aziende catanesi siano tutte uguali perché anche a Catania ci sono imprenditori che, pur faticando di più, non cercano e non accettano protezioni di nessun tipo. Siamo a disposizione sin da subito degli inquirenti per smascherare questi finti collaboratori che evidentemente tentano di avvelenare i pozzi per propri regolamenti di conti o magari per colpire proprio chi non sono riusciti a piegare e questo è un aspetto che deve essere chiarito immediatamente per impedire che si diffonda un sentimento di sfiducia che in questo momento aggraverebbe ulteriormente il già difficile momento storico.
«Quelle a proposito di Dusty sono dichiarazioni assolutamente fantasiose e prive di qualunque riscontro. La Dusty ha sempre denunciato ogni tentativo di estorsione e, a supporto di quanto dichiariamo, ci sono le decine di denunce e i procedimenti giudiziari, poi arrivati a condanna, che da esse sono scaturite Ci riserviamo di approfondire con gli atti e siamo certi che la magistratura arriverà in fondo a questa storia».
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