Editoria, generazioni a confronto/ 2 Rizzo: «Lo sfruttamento non è progresso»

Al centro una domanda: che cosa vuol di oggi essere un giornalista? Aggiungo, cosa vuol dire essere un giornalista televisivo? Perché una delle battaglie principali si combatte proprio sul terreno televisivo, al di la del supporto per la diffusione (canale digitale terrestre, satellite, web tv, etc). Non ho partecipato all’incontro su come cambia il giornalismo con le nuove tecnologie (nessuno mi ha invitato), ma leggo il resoconto che ne fa Claudia Campese. Mi permetto di proporre una riflessione.

Oggi la figura professionale del giornalista è al centro di un attacco concentrico. Un mercato feroce che punta al ribasso dei compensi, allo sfoltimento delle figure professionali, ad un abbattimento della qualità per massimizza i guadagni degli editori. Dall’altro un Potere che vuole un’informazione sempre più superficiale, controllata e ricattabile. La figura del giornalista deve essere multiforme, poliedrica, deve essere operatore, montatore, web master. Ci dicono che tutto questo è nuovo, che è il modello che va per a maggiore negli altri Paesi. Falso. Ho la ventura di girare l’Europa e quando mi trovo all’estero guardo cosa va in onda, vedo lavorare i colleghi britannici, francesi o tedeschi. In questi Paesi la troupe standard è composta dal giornalista che cura solo la parte contenutistica. Dal cameraman e dal fonico che governa il mixer e il boom. A volte vi è anche un producer che si occupa delle questioni organizzative, dei contatti e della logistica.

Negli Stati Uniti da decenni si privilegia la diretta, usando mezzi leggeri come le fly montate su furgoncini di ridotte dimensioni, che comunque richiedono la presenza di uno staff tecnico di tre, quattro persone. In molti casi, di fronte alle emergenze, ma solo nella primissima fase, ovvero prima che arrivino i mezzi, si usano i trasmettitori del cosiddetto zainetto (in Italia cominciamo solo ora a sperimentarlo). La qualità del prodotto messo in onda dalle televisioni straniere è comunque di gran lunga superiore al nostro, sia sul piano contenutistico, sia sul piano delle immagini, che piaccia o no, in televisione fanno la differenza tra un prodotto professionale e uno dilettantistico. Il nostro prodotto invece sta scadendo a vista d’occhio.

Eppure in Italia abbiamo da sempre avuto una scuola che ha formato, molto spesso sul campo, personale tecnico di eccellenza. In larga parte abbiamo, dalla seconda metà del secolo scorso, importato dal cinema alla televisione competenze di livello altissimo. Montatori, operatori di ripresa, direttori della fotografia che a loro volta hanno creato altri professionisti. Oggi abbiamo ancora in questi settori moltissimi giovani con un livello altissimo di professionalità, ragazzi a volte sotto i trent’anni, precari, mal pagati, sfruttati ma che sono capaci di garantire un prodotto altissimo sul quale hanno una precisa ed ineguagliabile competenza. Si sono formati in via esclusiva in questo settore e ne rappresentano vere eccellenze. Il sistema editoriale sta cercando di distruggere questo patrimonio. Cercare figure ibride mescolando in modo sciatto ruoli che non hanno tra loro rapporti. Farlo significa ridurre il livello della qualità del prodotto, non solo il ruolo giornalistico, significa condannare alla distruzione un patrimonio di professionalità che ancora in questo Paese abbiamo.

Il video reporter, il film marker o come diavolo volete chiamarlo è una persona che non è nulla. Non sa fare bene nulla. La sua possibilità di controllo delle notizie è pari a zero, deve, in un tempo rapidissimo, girare, valutare le notizie, a volte trovarle, confrontarsi con le fonti, considerarne l’attendibilità, contemporaneamente montare, inserire online, titolare. Credete sinceramente che questo sia fare buon giornalismo? Credete che i network nazionali debbano mandare in onda immagini girate con i telefonini o con i tablet? Capisco che di fronte ad eventi si giri usando quello che si ha a disposizione, ma questa elasticità necessaria di fronte alle emergenze della cronaca, oggi la si vorrebbe fare diventare l’ordinarietà.

Si obietta che Report usa molto i giornalisti autosufficienti. È vero. Ma Report è un format specifico. I tempi sono enormemente dilatati. Privilegia la parte contenutistica del reportage e si affida ad una cinematografica volutamente scarna, funzionale alla documentazione dell’evento. Ha sviluppato così un suo linguaggio particolarissimo che è opposto, se vogliamo trovare un paragone, a quello elaborato da Sciuscià. Ma la televisione non può essere tutta Report, o meglio non si può usare il programma della Gabbanelli come una scusa per farci ingoiare un modello dell’informazione televisiva che fa regredire il prodotto italiano a livelli che non esistono in nessun paese avanzato.

Vi è poi il grande problema della formazione e della qualificazione degli operatori dell’informazione. Le scuole di giornalismo sono partite con buone intenzioni, ma si sono arenate divenendo, per lo più, fabbriche di sogni. Delle facoltà di giornalismo non si parla, sostituite da una buffonata come i corsi di laurea in Scienze della comunicazione! Anche queste strutture che non formano, slegate dal mercato, sono – lo dico fuor di metafora – in larga misura un rifugio per chi non ha molta voglia di studiare. Il mercato è drogato da un’offerta che supera di gran lunga la domanda, con un Ordine dei giornalisti incapace di affrontare i due o tre punti che segnerebbero una riforma vera della professione.

Non ha infatti senso mantenere un albo dei pubblicisti. Chi occasionalmente scrive su un giornale, questo è lo spirito che definisce la figura del pubblicista, non ha alcuna necessità di essere iscritto ad un ordine o ad un albo professionale. Tutti possiamo scrivere usando le garanzie contenute nell’articolo 21 della Costituzione. L’Ordine e l’albo professionale riguarda coloro che svolgono professionalmente l’attività di giornalisti, che hanno la responsabilità di confezionare professionalmente un prodotto informativo che ha l’autorevolezza di esserlo davanti all’opinione pubblica. Come accedervi? Io credo che la strada sia quella di una formazione universitaria in giornalismo, strettamente legata alla pratica della professione, rigidamente regolata con un numero chiuso di accesso, che garantisca l’immissione sul mercato del lavoro di un numero di professionisti tali da non snaturare il mercato. Altro elemento fondamentale è l’eliminazione del lavoro flessibile nelle redazioni a garanzia non dei giornalisti, ma dei lettori e dei telespettatori. Un giornalista precario è un giornalista ricattabile. Con un contratto che scade e che deve essere rinnovato, soprattutto i colleghi più giovani, sono esposti a pressioni professionali e purtroppo a volte anche personali, alle quali non hanno possibilità di opporsi.

Il mio invito infine è quello d stare molto attenti a chi vi vuol sedurre indicando come nuovo qualcosa di infinitamente vecchio che si chiama sfruttamento. Accettarlo significherebbe fare un danno non solo a voi stessi, ma a tanti altri professionisti. Ma soprattutto fareste un danno alla vita democratica e al livello cultuale di questo Paese che già bene non sta messo.

Buon lavoro a tutti.

Valter Rizzo

[Foto di Alberta Dionisi]


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Continuiamo il dibattito su come cambia il giornalismo alle prese con le nuove tecnologie e a cavallo tra le generazioni con un contributo del giornalista televisivo Valter Rizzo. «Il video reporter è una persona che non sa fare bene nulla. Così si distruggono professionalità e si abbassa il livello dell'informazione», dice il cronista. Che sottolinea la necessità di una profonda riforma dell'accesso alla professione

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