La Folgore fabbrica fascisti. Attorno a questa tesi, sintesi riduttiva estrapolata dallo studio «Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle forze armate italiane: unautoetnografia», scritto dai sociologi Pietro Saitta e Charlie Barnao, meno di un anno fa si scatenò un acceso dibattito. Il quotidiano Il Giornale attaccò gli autori del saggio; alcuni militari del reparto paracadutisti crerono un sito e lanciarono una petizione per difendersi dalle accuse; l’Università di Messina, responsabile del Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto, dellinformazione e delle Istituzioni Giuridiche che aveva pubblicato lo studio, si affrettò a ritirarlo scusandosi per il mancato controllo. Ma Saitta, che continua a fare il ricercatore nell’ateneo siciliano, e Barnao, sociologo all’Università di Catanzaro ma con un passato proprio nella Folgore, sono andati avanti ed entro l’anno la loro analisi verrà pubblicata nella versione inglese, con ulteriori approfondimenti e interviste ad ex militari. Nuovo materiale a sostegno della loro ipotesi, che va ben oltre il rapporto che legherebbe la Folgore al fascismo, inteso nella sua accezione psicologica e non politica, e che intende aprire una riflessione sulla trasformazione che sta avvenendo all’interno dell’apparato di sicurezza italiano, sempre più militarizzato. Mutamento che si riscontrerebbe nella gestione dei fronti caldi: dalla Tav al Muos di Niscemi.
«E’ noto che dal 2004 si entra in polizia quasi unicamente tramite l’esercito – spiega Saitta – si passa quindi attraverso un tipo di training militare, spesso in scenari di guerra quali sono in realtà le missione di peace keeping, per finire a svolgere attività ordinarie. Questo tipo di socializzazione non produce conseguenze? E’ possibile che tra il crescente autoritarismo della polizia e questo tipo di background ci sia un legame? Secondo noi sì». Eccolo il nocciolo della questione a detta dei due sociologi, cioè che ad una «polizia del cittadino» si stia lentamente sostituendo una «polizia del sovrano». Tesi a cui va necessariamente accostata una premessa. «Non bisogna commettere l’errore di considerare la polizia come un blocco monolitico – sottolinea Saitta – ci sono forti differenze tra corpi, specializzazioni e funzioni». E tanti poliziotti che svolgono ogni giorno con giudizio il loro compito.
I due sociologi hanno raccolto numerose interviste tra vari corpi di polizia. «Ne viene fuori una spaccatura generazionale abbastanza evidente – continua Saitta – tra la fascia che va dai 40 anni in su, con un background civile e formata su certi ideali di giustizia e miglioramento della società, e quella dei più giovani, a partire dai ventenni, che hanno alle spalle una storia diversa e che inoltre non hanno conosciuto certe esperienze storiche». Nello studio che uscirà in inglese, un ex ufficiale spiega alcune caratteristiche che tendono a ricorrere nei poliziotti che sono stati ex militari: «pensano di avere ragione su tutto, non rispettano i colleghi con un background civile, hanno un modo pro-attivo di svolgere il proprio ruolo, cioè manca la prossimità al cittadino e preferiscono far succedere gli eventi, si sentono sotto assedio e sono propensi ad un’applicazione punitiva della legge».
Ma per capire l’origine di questo cambamento, bisogna uscire fuori dal campo delle forze di sicurezza e guardare alle trasformazioni in atto nella nostra società. «Negli anni ’70 – analizza Saitta – i movimenti erano forti, c’era un grande attivismo e anche all’interno della polizia nasceva il sindacato e una lotta per i diritti che ha spinto verso una maggiore democratizzazione. Oggi la società va a destra, c’è più indifferenza e disillusione, e questo si riscontra di conseguenza anche nella polizia, i cui vertici, inoltre, sono di nomina politica». E’ in questo senso che lo studio parla di fascismo, non in senso politico, ma psicologico (nella prospettiva di Adorno), che comprende un’idea precisa di obbedienza, sessualità, spirito di corpo, uso della violenza, ritualità ossessiva, rigetto dell’intellettualità. Ne deriverebbe una sempre minore mediazione, ad esempio, nelle manifestazioni di protesta. «Prova ne sono – conclude Saitta – la recrudescenza dei rapporti sul caso Muos e i continui controlli anche in paese».
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