Un monologo in versi per raccontare lorrore di una guerra persa in partenza, attraverso gli occhi di chi lha vissuta in prima persona. E non è più tornato. Tra personaggi umani e grotteschi, ironia, dolore, rabbia e verità. Ci riesce benissimo Li Romani in Russia, spettacolo in scena ieri sera al teatro Angelo Musco di Catania, in fuori abbonamento per la stagione dello Stabile. Interpretato da un bravissimo ed emozionante Simone Cristicchi, cantautore romano – vincitore del festival di Sanremno nel 2007 – approdato sul palcoscenico con naturalezza e credibilità. Che, gavetta in mano e zaino militare e fucile in spalla, solo con lausilio della sua voce e della mimica, narra in rima le avventure di Gigi, Mimmo, Peppe, Nino, Nicola, Remo, un gruppo di soldati poco più che ventenni della Divisione Torino, a Roma, spediti dal Duce – insieme a decine di migliaia di compagni provenienti da tutta Italia – a combattere la campagna di Russia. E a morire in nome della Patria.
Siamo nel 1941, la seconda guerra mondiale sta dilaniando lEuropa e er Capoccia (così i giovani militari chiamano Benito Mussolini), in accordo con Baffetto (Adolf Hitler), inviano nella Steppa sovietica centinaia di soldati di fanteria per «sconfiggere le truppe comuniste» e combattere una battaglia annunciata come «una passeggiata». Che però si è trasformata presto in tragedia, in cui tutti o quasi sono destinati a morte certa, decimati dai carri armati nemici e dal crudele Generale Inverno. Impreparati alla vastità di una terra gelida ed ostile, con viveri insufficenti ed equipaggiamenti vetusti, presto costretti ad una ritirata più simile ad un’odissea infernale, assediati da un nemico imprevedibile e abbandonati dalla patria al loro destino.
«Altro che dispersi», racconta la voce narrante. «Chi non è tornato, è morto!». E a non fare ritorno casa sono stati migliaia di ragazzi, caduti sul campo per le ferite, per gli stenti, per la fame, la sete, il freddo insopportabile, disumano. Oppure sotto ai colpi delle armi nemiche, più potenti dell’attrezzatura sgangherata dei soldati italiani, partiti a piedi alla volta delle gelide terre russe con «elmetti di cartone e mezzi di trasporto del ’15/’18».
Raccontando passo dopo passo l’intera spedizione, tra giochi di luci ed ombre, Cristicchi impersona la sofferenza e la paura di compagni immaginari, le loro vite spente in terra straniera, le battaglie affrontate con coraggio e dignità, gli incontri con un nemico straniero dal volto umano. Presentando al pubblico, con sensibilità ma senza esitare, anche le verità più crude, le bugie tenute nascoste da chi è rimasto in Italia. Gli orrori di un inferno bianco – la sconfinata Steppa sovietica – fatto di morte, sangue, terrore e consapevolezza di non rivedere mai più i tetti di Roma. Da una sedia, in un cantuccio del palcoscenico, l’attore romano diventa anche voce di reduce – la stessa di Elia Marcelli, autore del poema in versi da cui è tratto lo spettacolo – attraverso cui testimoniare rabbia, atrocità e verità scomode, vive ed indelebili solo nella memoria chi è riuscito a salvarsi e tornare.
Un linguaggio diretto, reso scorrevole dai versi in ottava classica e ancora più vero dal dialetto romanesco, con le parole dei giovani soldati attraverso la voce dell’interprete Cristicchi. Con modalità di racconto che ricordano schiettezza e genuinità linguistica dei sonetti di Gioacchino Belli e la stessa amara ironia di un altro monologo, Il Sergente di Marco Paolini, con le stesse atmosfere delle cronace autobiografiche dei racconti di guerra di Mario Rigoni Stern.
Uno spettacolo, diretto da Alessandro Benvenuti, che in poco più di un’ora restituisce a pieno tutto il dramma di un inferno dimenticato. Una «storia di guerra a millanta mila miglia» e in cui l’uomo viene ridotto «all’animale più bestia della terra». A fare da sfondo alla narrazione il ritmo delle marce militari, gli inni alla Patria, la voce tuonante del Duce che incita alla vittoria e il rumore incessante della pioggia battente che accompagna il lungo cammino dei soldati. Che però non lava via la loro speranza di fare ritorno a casa, che fino all’ultimo non muore mai.
Un monologo passionale, intenso, a tratti divertente, ma soprattutto commovente, che il pubblico catanese ha premiato salutando il suo giovane e bravo interprete con un lunghissimo applauso.
[Foto di Teatro Stabile di Catania]
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