Coworking, dal boom iniziale all’eccesso di offerta? «Si regge a fatica, speriamo nel fermento culturale»

Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Una delle più classiche domande giornalistiche si presta bene all’analisi del fenomeno del coworking, la condivisione di un ambiente lavorativo dove si uniscono singoli professionisti, freelance, creativi, artisti, start up e imprese. Negli ultimi cinque anni gli spazi di coworking a Palermo si sono moltiplicati: su Google ufficialmente ne compaiono 12, e anche il Comune ha provato ad aprirne uno pubblico, seppur tra mille criticità. L’offerta di luoghi sembrerebbe indicare che in città esista un’altrettanta forte domanda da parte del cosiddetto lavoro intellettuale e soprattutto under 40, il target privilegiato del coworking. Ma è davvero così? Secondo il rapporto della fondazione Migrantes sono 2.522 le persone che nell’ultimo anno hanno abbandonato Palermo e la sua provincia. E si tratta soprattutto di uomini e donne di età compresa tra i 24 e i 35 anni.


Per capire i motivi del contraddittorio boom dei coworking Meridionews è andata a verificare direttamente di persona. Col tempo ciascuno spazio si è ritagliato una propria specificità. Inoltre il concetto del fare rete e dello scambio di competenze sembrano attecchire difficilmente in una città individualista come Palermo. Solo di coworking non si campa, insomma, tanto che tutti provano formule miste per sostenersi. E con le paghe da fame che ci sono nel settore intellettuale, diventa difficile permettersi pure una postazione. Allo stesso tempo la città registra un innegabile fermento: sempre più turisti la scelgono come meta delle proprie vacanze, mentre le iniziative culturali e sociali si susseguono senza sosta con un crescente successo e attirano sempre più persone – Manifesta, Le Vie dei Tesori, il percorso arabo normanno, la Capitale dei Giovani e della Cultura stanno lì a testimoniarlo. Creativi e stranieri, insomma, puntano su Palermo. Ecco perchè diventa interessante ascoltare le voci di chi punta a creare nuove forme di collaborazione, di profitto e di spazi che, oltre che meramente lavorativi, sono spesso anche sociali.

Alessandro Valenziano e Manuele Chiarello gestiscono Quarto Tempo. Mentre Alessandro ha sempre lavorato nel settore culturale, Manuele ha interrotto gli studi di Agraria per portare avanti il progetto. «Oltre che coworking noi siamo anche un centro culturale – dicono – e dopo le 18 diamo spazio ad attività didattiche. Siamo aperti da due anni e fino a poco tempo fa i nostri spazi non erano del tutto occupati, poi abbiamo trovato un taglio nostro e da lì c’è stato un buon fermento. C’è necessità di stare insieme, qui da noi non si affittano spazi ma si condividono modi e idee dell’associazione. Non ci sentiamo in competizione con gli altri ma anzi collaboriamo tra di noi. Il vero concetto di coworking ha bisogno di tempo per consolidarsi superando l’idea di uno spazio tutto per sè a scapito del potenziale di arricchimento che nasce dalla condivisione».

Claudio Arestivo è tra i fondatori di Moltivolti, nato nell’aprile 2014. Volto noto dell’associazionismo locale, è tra i promotori di Mediterraneo Antirazzista e di Ballarò Buskers. «La nostra caratteristica è quella di rivolgerci al terzo settore – afferma -. Qui vengono i gruppi, una scelta che proviene dal nostro background, differenza degli altri che si rivolgono a singoli professionisti. Dopo aver sperimentato negli anni passati un altro cowrking, qui a Ballarò abbiamo stabilito lo spazio profit, cioè il ristorante e il bar che coprono le spese e anche il coworking. Ad oggi il 90 per cento di chi accede al coworking non paga, perchè sappiamo che spesso c’è gente che magari ha belle idee ma coi costi non ci arriva. Selezioniamo gli arrivi in base alle ricadute che loro attività avranno nel quartiere». 

Neu, noi è tra i primi coworking ad aver aperto in città, nel gennaio 2012. A fondarlo Michelangelo Pavia, che da Milano ha scelto di cambiare vita e di venire a vivere in Sicilia. «C’è stato un periodo abbastanza lungo in cui lo spazio non era conosciuto – dice l’architetto, esperto di pianificazione territoriale -. Quest’anno registriamo una netta crescita, man mano che si va avanti c’è una risposta maggiore. Dall’altro lato in tanti sono andati via, dallo spazio e anche da Palermo. Credo che ciò sia dovuto alla mancanza di una risposta reale da parte della città, c’è poca voglia di innovazione nell’ambito lavorativo, così come manca la volontà di fornire una giusta retribuzione e una giusta creatività. Sono in pochi i professionisti che prendono una postazione, che spesso preferiscono lavorare a casa da soli, anche per questo noi ci rivolgiamo soprattutto a partite iva e piccole imprese». 

Quasi tutti i coworking hanno scelto di insediarsi in centro, la parte più vivace della città. E seppur vicini tutti garantiscono di non essere concorrenziali. È il caso di Roberto Ragonese, che dopo aver vissuto per anni a Genova lavorando nel mondo dello scouting calcistisco ha preferito tornare nella propria città e aprire PMO. «Prima di aprire lo spazio ho voluto creare una community – spiega -. Il coworking serve soprattutto a creare e trovare competenze, non a caso chi lo prova poi rimane. C’è chi arriva per un unico evento, chi vuole una stanza riservata, ma noi non siamo un centro uffici, ci interessa la relazione. Personalmente sono entrato subito in un giro internazionale di clienti, i cosiddetti nomadi digitali, perchè di palermitani se ne vedono poco. Il fermento culturale in città c’è, è innegabile e noi ci speriamo, ma comunque si regge con fatica. Ciò secondo me perchè qui nessuno vuole investire sui giovani: le idee ci sono, tante e meravigliose, manca il capitale di rischio».

L’ultimo in ordine di tempo ad aprire è Magneti Cowork, che il mese prossimo festeggerà un anno di vita. Anche questo spazio non è autosufficiente, al momento, e anche qui le postazioni sono gratuite. A differenza degli altri, invece, la gestione è societaria e non sotto forma di associazione. «Ci rifacciamo alla sharing economy, l’economia della condivisione – racconta Giuseppe Pignatone -. Se le persone sono risorse allora vanno aggregate. Per far questo noi a breve introdurremo un’app, e pensiamo pure a piani di comunicazione adatti ai coworkers. Non serve dunque solamente mettere insieme la gente in uno stesso spazio, ma si deve ottenere la contaminazione. Stiamo insomma attenti a non diventare uno studio associato di professionisti. Sì, è vero, il palermitano è individualista ma è proprio questo lo schema che vogliamo rompere. E attenzione: non si tratta di mecenatismo, ovviamente c’è un ritorno ma è a lunga scadenza».


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