Così Renzi per fare ‘cassa’ pensa al petrolio, anche a costo di sfasciare l’ambiente

L’INIZIATIVA RISCHIA DI DISTRUGGERE I GIA’ DELICATI EQUILIBRI ECOLOGICI DEL CANALE DI SICILIA. PER AVERE, POI, ROYALTY CHE, IN ITALIA, SONO TRA LE PIU’ BASSE DEL MONDO

Non è servita a niente la vendita (o forse sarebbe meglio dire la “messa all’asta” dato che molte delle macchine non sono state aggiudicate) di uno sparuto numero di auto blu, a dire il vero alquanto vecchiotte. Non è servita a molto la riduzione del numero di F35 ordinati ai signori USA della Lockeed (il loro prezzo è cresciuto e così la spesa per gli italiani che hanno comprato aerei inutili e difettosi). Non è servita a molto anche la svendita di buona parte dei “gioielli di famiglia”, vale a dire le quote azionarie di grandi aziende come Poste e Telecomunicazioni, Eni, Enav, Fincantieri e molte altre. Non è servito inserire tra le voci del Pil i giri d’affari (illeciti) di prostituzione, droghe e altre voci peraltro difficilmente valutabili.

Né il “nuovo che avanza” né i suoi predecessori hanno mai affrontato il vero problema dei conti pubblici nazionali: vale a dire la sovranità monetaria e l’emissione di moneta da parte dello Stato. Questo, insieme al problema dei costi della pubblica amministrazione (che continuano a crescere alla faccia della spending review), fa sì che la voragine del debito pubblico continui a crescere. Il nuovo massimo storico (ma i record ormai si susseguono a ritmo costante) è di 2.168,4 miliardi di Euro. Non solo, ma grazie anche alle politiche fiscali del “nuovo che avanza” e dei suoi predecessori, le entrate per lo Stato, in barba ad un carico fiscale sempre maggiore, sono in costante calo. A giugno le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state 42,7 miliardi di Euro, in diminuzione del 7,7 per cento (3,5 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2013. Nei primi sei mesi dell’anno le entrate sono diminuite dello 0,7 per cento per cento (1,3 miliardi) a 188,1 miliardi.

Ecco quindi che, non volendo fare l’unica cosa che sarebbe giusto e funzionale fare, il governo Renzi si è trovato costretto a inventarsi strade alternative per fare cassa.

Quale è stata la sua trovata? Trovare il petrolio. Eppure proprio Renzi, solo un paio d’anni fa affermava: “Il futuro del nostro paese è lontano dai combustibili fossili: il futuro del nostro Paese è l’efficienza energetica, l’innovazione e l’uso delle rinnovabili”. ( 21 Novembre 2012, Le Scienze).

Forse il nostro presidente del Consiglio aveva saputo quanti problemi ha causato alla Sicilia (e anche ad altre regioni) il petrolio. Basti pensare allo stabilimento ENI di Gela. Emissioni in atmosfera, rifiuti tossici da smaltire, oleodotti, desolforatori, raffinerie, scoppi e perdite con conseguenze disastrose per l’ambiente, territori agricoli o boschivi trasformati in aree industriali e molto altro.

Ma il tempo passa e i politici cambiano (anche troppo spesso) idea. Così, un paio di giorni fa, durante un discorso a Gussago, il “nuovo che avanza” ha detto: “Siamo in una forte crisi energetica e non estraiamo il petrolio che c’e’ in Basilicata e Sicilia. Io la norma – ha aggiunto – per tirar su il petrolio la faccio, anzi l’ho fatta”.

Un vero esempio di “correttezza politica”, specie se si considera che ha a pronunciare queste parole è lo stesso che, solo qualche mese fa, giurava che non sarebbe mai andato al governo senza essere eletto. Un progetto, il suo, che vorrebbe raddoppiare, entro il 2020, l’estrazione di idrocarburi in Italia, portandola a 24 milioni di barili equivalente all’anno.

Con un incasso in termini di introiti fiscali annui intorno al miliardo di Euro extra. Una manna, in teoria. Sì perché tra il dire e il (governo del) fare c’è di mezzo il mare che potrebbe essere inquinato e che così non sarebbe più una risorsa per il turismo e per la pesca senza contare le conseguenze economiche della bonifica che comporterebbe un incidente del genere. Del resto che ci fosse il petrolio, lo sapevamo. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, lo conferma: “In Italia c’è una dorsale del petrolio e del gas che parte da Novara e poi si distende lungo l’Appennino fino in fondo alla Calabria e prosegue in Sicilia”.

Di combustibili fossili ce ne sono in molte parti d’Italia e anche d’Europa. Ma in queste zone vincoli ambientali e ragioni di sicurezza (in caso di problemi agli impianti) hanno fino ad oggi bloccato l’accesso ai giacimenti. L’Europa del petrolio è frenata dai divieti. Come sottolinea Tabarelli «persino dalla Polonia, lo Stato europeo più promettente per lo shale gas, l’Exxon, l’Eni e altre compagnie se ne sono già andate». Così le aziende che sono scappate a causa dei vincoli da altri Paesi europei hanno pensato bene di battere cassa sull’unico Paese in cui “tutto può essere risolto”. E dove decide di trivellare il “nuovo che avanza”? Ovviamente al Sud.

Casualmente (ma molti media hanno dimenticato di collegare le due cose) nei mesi scorsi proprio Gazprom ha annunciato che non farà più passare il gasdotto che porta il gas dalla regione del Caspio dalla Puglia per poi distribuirlo in Europa (il percorso passerà direttamente attraverso Bulgaria, Romania, Ungheria etc.). E pare che ciò sia in qualche modo dovuto alle scelte di politica estera del “nuovo che avanza”.

Il Bel Paese è stato improvvisamente tagliato fuori da un progetto di pipeline lungo quasi 3 mila kilometri. Per l’Italia uno schiaffo fortissimo, un rimescolamento di carte all’interno dello scacchiere geopolitico ed economico continentale: lo ”stivale” è passato dall’essere attore di primo piano (oltre che azionista, tramite Eni, del South Stream offshore), ad essere semplice clienti. C’è chi ha detto che questa decisione è derivata all’atteggiamento troppo remissivo dell’Italia nei confronti degli USA. E di certo le ultime azioni del governo Renzi, invece che smentirla, confermerebbero questa ipotesi. Germania, Italia, Francia, che sinora erano state caute nei giudizi politici nei confronti della Russia, sono dipendenti dal gas russo e non solo dal punto di vista energetico (le tre compagnie che sono in società con i russi di Gazprom nel consorzio South Stream sono l’italiana Eni, la francese EdF e la tedesca Wintershall).

La posizione assunta dal “nuovo che avanza” potrebbe aver spinto i russi a prendere decisioni “diverse” sebbene senza rinunciare ai clienti centroeuropei.

Tutto questo avrebbe potuto portare il Governo a prendere una decisione forse azzardata. Sì perché la decisione di ridurre a un colabrodo con le trivelle Basilicata e Sicilia, due zone ad elevato rischio sismico, forse potrebbe essere troppo semplicistica. Non solo considerando i problemi geologici delle aree, ma anche in considerazione del patrimonio che potrebbe essere danneggiato da eventuali problemi (che, come hanno dimostrato gli impianti esistenti in Sicilia, sono quasi inevitabili).

Il tutto poi senza ricevere alcun beneficio sul territorio. Gli unici a beneficiare realmente dell’iniziativa del “nuovo che avanza” sarebbero le multinazionali, che estrarranno risorse energetiche italiane per venderle dove gli sta più comodo. E al prezzo che vorranno. Nessun vincolo che imponga, ad esempio, alle multinazionali di vendere all’Italia a prezzo ridotto o di vendere alle Regioni interessate con sconti rilevanti (lo dimostra il fatto che sebbene prevista in Sicilia non è stato mai fatto). Ma neanche benefici per lo Stato. Non sarà certo questa semplicistica decisione a far vincere al Bel Paese la “la sfida energetica”. Gli unici a vincere la “sfida di Wall Street” saranno gli azionisti sparsi nel mondo (e tra questi in primo luogo le banche).

L’unico contentino per l’Italia sarà un aumento, peraltro esiguo, delle entrate grazie alle royalties (le aliquote che le compagnie devono pagare allo Stato sul quantitativo estratto di petrolio). E anche qui il “nuovo che avanza” mostra, forse distratto dal gelato, di avere trascurato qualcosa: in Italia le royalties sul petrolio sono tra le più basse del mondo (il 10 per cento per i giacimenti in terraferma, il 4 per cento offshore, mentre all’estero si pagano aliquote tra il 20 e l’80 per cento). Entrate che non basteranno a risanare il bilancio dello Stato, sempre che di “entrate” si tratti.

Non è detto infatti che questi soldi siano sufficienti a coprire i disagi che una simile iniziativa comporterà per le regioni che ospiteranno gli impianti. Per questo sarebbe stato normale attendersi che facessero sentire la propria voce Pittella e Crocetta, i presidenti delle due regioni. Stranamente, però, nessuno dei due ha proferito parola. Eppure qualcuno avrebbe dovuto far notare a Renzi, che il petrolio in Basilicata viene estratto e da tempo (e copre fra il 7 e il 10 per cento del fabbisogno energetico nazionale) già estratto da un pezzo e che ci sono accordi Governo-Regione-compagnie petrolifere ancora oggi non pienamente attuati.

Accordi come il cosiddetto Memorandum di Intesa Stato-Regione Basilicata. Per non parlare della Sicilia dove il petrolio è stato scoperto (ed estratto) intorno alla fine degli anni ’50 e le zone off shore intorno agli anni ’70 (fu creato anche per questo l’Ente minerario siciliano, Ems). Sicilia, dove non sono mai stati applicati per il petrolio estratto in Sicilia gli articoli 36 e 37 dello Statuto Regionale (è stata organizzata una raccolta di firme per chiederne l’applicazione proprio per le estrazioni, ma, evidentemente, né Renzi né Crocetta lo sanno). Fino ad oggi il petrolio, tanto petrolio, è stato solo succhiato dalla Sicilia. E poi portato altrove. Non sorprende che a Gela c’è chi ha parlato di “democrazia avvelenata”.

E così il “nuovo che avanza” ha potuto decidere da solo (ma non avrebbe dovuto prima consultare e ascoltare tutti i soggetti presenti e coinvolti sul territorio (che fine ha fatto Agenda 21 locale?). E se ne è pure vantato. Come spesso accade i risultati della petrolizzazione non si vedono il giorno dopo, ma dopo anni. È facile fare demagogia stando in Toscana o a Brescia. Tanto i pozzi saranno scavati altrove e, se tutto andrà come previsto, le malattie e i danni all’ambiente, si vedranno tra anni.

Forse Renzi non lo sa, ma ridurre a un colabrodo tutto il meridione non servirà a chiudere i buchi del bilancio dello Stato. Servirà solo a creare una voragine ancora maggiore tra gli italiani e lui.

 

 

 


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