CLASSIC: Unplugged in New York – Nirvana

Nirvana

UNPLUGGED IN NEW YORK

(1994, Geffen)

 

 

PREMESSA

 

 

Non è difficile emozionarsi ogni qual volta gli arpeggi di “About A girl” sbucano fuori tra gli applausi del pubblico: quei pochi privilegiati che probabilmente un giorno diranno “io c’ero” all’unplugged dei Nirvana nel 1993. Non è difficile, anzi piuttosto immediato, emozionarsi, soprattutto per quella generazione che è cresciuta sospirando della tristezza inconsolabile di Kurt Cobain e della sua storia di martire moderno trafitto dalle frecce del mercato frettoloso, delle pressioni discografiche, delle aspettative dei fans, della sua davvero vulnerabile debolezza e, non più frecce ma pallottole, della canna del fucile Remington che aveva a casa. Non è difficile avere un groppo alla gola quando la disperazione al canto dell’ultimo brano in scaletta “Where did you sleep last night” ci preannuncia ogni qual volta, anche a ormai dieci anni dal suicidio, che quello è l’ultimo vagito di un ragazzo pronto alla morte, che ha deciso, che si arreso alla vita e ai suoi crampi allo stomaco ammaestrati con l’eroina. Non è difficile, così e in fine, definire L’Unplugged in New York il testamento spirituale e artistico di Cobain e probabilmente l’album di maggiore intensità ed emozioni (superando anche il cult Nevermind) che i Nirvana abbiano mai inciso.

 

È il 18 Novembre del 1993 (il disco verrà pubblicato nell’Ottobre del 1994) quando Kurt, Dave (Grohl) e Krist (Novoselic) salgono sul palco dei Sony Studios di New York. In mezzo alla strumentazione ci stanno anche delle orchidee, delle candele e dei lumicini ad immergere lo scenario in un’atmosfera imbevuta di minimale e sublime tristezza. Già vedere i Nirvana sedersi su delle seggiole, imbracciare degli strumenti acustici e rimanere sostanzialmente sottovoce fa un effetto particolare, considerate le esibizioni al vetriolo della band che infiammavano gli stadi nell’allora recente tour di In Utero. Metaforicamente si potrebbe accostare il tutto alla decade cui la band di Seattle ha partecipato a suonarne la colonna sonora: gli anni ’90. Anni indiavolati, tecnologici, spreconi, multicolori, ma a tratti tristissimi, insofferenti, crudi e di poche parole.

Così Grohl si trova a frenare la sua follia e frustare appena le sue pelli, Novoselic si dondola sul suo serio contrabbasso e Kurt, chiuso in un maglioncino azzurro e nei suoi occhi sommessi, appollaiato in uno sgabello, canta stancamente i brani scelti, rivolgendo, a fine esecuzione, qualche battuta delle sue. Otto sono le perle tirate fuori dai tre album dei Nirvana e reinterpretate in chiave “senza spina”. Alla già citata “About a Girl” di Bleach, seguono le regine di Nevermind “Come as you are”, “Polly”, “On a Plain”, “Something in the way” e il trittico “Pennyroyal Tea” – “All Apologies” – “Dumb” tratto da In Utero.

È ascoltando queste versioni delicate e acustiche che finalmente ci si

convince del tutto che i Nirvana sanno suonare per davvero e che, opinione diffusa all’epoca, non fossero soltanto fonte di rumore assordante. Gli arrangiamenti sono delicati, onirici, blues; le chitarre di Kurt e di Pat Smear (chitarrista dei Germs ingaggiato per il tour di In Utero), il coro di Grohl e i ricami della violoncellista Lori Goldstone hanno la capacità di rapire e bendare di sogno l’alscoltatore e, chi ha ascoltato il disco senza vedere il film del concerto, può giurare di aver accostato alla musica l’atmosfera di penombra e di rilassatezza svelate dalle immagini. La tracklist è completata e impreziosita da sei cover. Kurt scelse i pezzi che più lo coinvolgevano emotivamente e che forse aveva da sempre sognato interpretare. Così, se “Jesus Don’t want me for a sunbeam” degli scozzesi Vaselines (splendida la fisarmonica di Novoselic) e la versione grunge di “The man who sold the world” di David Bowie sono brani che col tempo, grazie ad una intensissima e personale interpretazione, verranno riconosciuti dalla gente come originali dei Nirvana, l’entrata sul palco, imprevista, dei fratelli Kirkwood dei Meat Puppets, regala una fusione splendida (sia dal punto di vista musicale che da quello scenografico) per il trittico forse più emozionante dell’esibizione. “Plateau”, “Oh Me”, “Lake of fire” , tratte dalla discografia dei Puppets, sono suonate in maniera antastica: la malinconia, lo sconforto e la solitudine sono di quelle sporcate dalla terra rossa dei film western. Le qualità vocali di Kurt si intrecciano con gli arpeggi ed i giri armonici delle parecchie chitarre acustiche in gioco e la disperazione non è mai stata così suadente. Il finale già citato è quello di “Where did you sleep last night” del vecchio bluesman Leadbelly. Il pezzo sembra uno spiritual di quelli che gli schiavi cantavano nelle assolate piantagioni del Lousiana come tentativo di esorcizzare la propria tristezza. E Kurt la interpretò proprio in quel senso. L’urlo finale, sgraziato, sfibrato fa rabbrividire. Il pezzo, con il suo climax, è la maniera migliore per chiudere la migliore saga degli Unplugged di Mtv.

 

E poi punto e non a capo. Kurt mette via la propria chitarra e non la prenderà più. La storia è nota oramai, è quindi inutile citare le ultime ore dell’angelo bruciato. Teniamoci stretto questo live e la sua ineguagliabile bellezza, custodiamo gelosamente il ricordo di un grande artista dalla grande voce e con una grande legenda musicale da raccontare.


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