Cinque gennaio, la parola ai giovani

«Giuseppe Fava è stato ucciso due volte, la prima dalla mafia e dai killer che gli hanno sparato e la seconda dalla cattiva informazione dei giornali e dalla cattiva politica che hanno cercato di coprire la verità». Con questa citazione di Roberto Saviano Pino Finocchiaro, giornalista di Rai News 24, ha aperto il dibattito su “Il rapporto tra mafia, potere e informazione” che si è svolto domenica scorsa nella sala consiliare comunale di Palazzolo Acreide, paese di nascita del giornalista ucciso nel 1984.

All’incontro, organizzato in occasione della quarta edizione del Premio Fava (e terza del Premio Fava Giovani “Scritture e immagini contro le mafie”), hanno partecipato i giornalisti Riccardo Orioles e Franco Oddo, insieme a Rosa Maria Di Natale, giornalista e docente a contratto di “Comunicazione, giornalismo e nuovi media” all’Università di Catania. Presenti anche Antonella Mascali, cronista di Radio Popolare e collaboratrice del Fatto quotidiano, e che, all’indomani del 5 gennaio 1984, partecipò insieme a molti altri studenti catanesi a “Siciliani Giovani”; Carlo Ruta, giornalista e saggista; Pippo Cascio, consigliere di Assostampa Sicilia; Paolo Caligiore, presidente dell’Associazione palazzolese antiracket “Pippo Fava” e il senatore Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia. Contrariamente a quanto in programma, non è invece intervenuto il vicepresidente della Commissione, l’onorevole Benedetto Fabio Granata.

Il Premio Fava Giovani è stato assegnato quest’anno allo scrittore, regista e attore Giulio Cavalli, per i suoi monologhi di denuncia sulla mafia, come l’inedito “Giuseppe Fava, un uomo”, “500 euro, tutto a posto” sul fenomeno del racket e “A 100 passi dal Duomo”, sulla presenza della mafia nel Nord Italia (spettacoli messi in scena dopo il convegno). Il premio è stato ideato da una decina di ragazzi palazzolesi, fondatori del Coordinamento Fava, che ha indetto anche il Concorso scuole “La verità in immagini e scritti”, a seguito del quale sono stati realizzati dagli alunni 80 lavori su Pippo Fava.
Questo coinvolgimento dei giovani prova che ancora oggi Fava riesce ad attrarre e mettere insieme altri “carusi”, oltre aalle nuove generazioni di aspiranti giornalisti che imparano dai suoi collaboratori il “concetto etico del giornalismo” proclamato da Fava, basato sui fatti e sulla verità. Come ha ricordato nel suo intervento Riccardo Orioles, redattore dei Siciliani, «a Catania si è arrivati ormai alla quarta generazione di giovani che vogliono fare vero giornalismo, che sono pronti a scendere in campo e a sporcarsi le mani, come i ragazzi di U’Cuntu, La periferica, Lavori in Corso, Step1…».

L’incontro è stato un’occasione per riflettere sugli aspetti più importanti lasciati in eredità da Fava: l’idea di un giornalismo che dia spazio alle diverse realtà sociali, che si basa sulle inchieste, immerso nella realtà popolare, fatto di verità, che agisce tra e per la gente e che non ha padroni e non li vuole. E il suo modo di fare il giornalista: «Pippo Fava era presente anche in tipografia. Seguiva il giornale durante tutto il suo percorso, fino a quando era finito, per questo i suoi allievi sono diventati degli ottimi giornalisti, completi e professionali», afferma Franco Oddo.

Si è partiti dall’esperienza di Fava per passare all’analisi della situazione attuale, alla necessità di cambiare i codici per dare spazio al pubblico e al suo feedback. «Dalla morte di Fava – dice Finocchiaro – in 26 anni le cose sono cambiate: il potere è più organizzato. Un paese in cui chi racconta la verità è sotto scorta non è un paese libero e la democrazia non è compiuta. Ma la verità è l’unica parola che ci guida e che ci rende cronisti. Sono contento, perciò, di vedere in questa sala tante piccole telecamere, piccole tv che, con i nuovi mezzi di comunicazione come il web, possono mostrare quello che sta accadendo e salvaguardare l’etica del giornalismo».
«Il giornalismo di Fava – ha aggiunto Carlo Ruta – aveva uno scopo e un approccio: voleva denunciare la mafia, le connivenze e gli abusi dei poteri pubblici, e lo faceva tramite le inchieste, ricercando e incalzando i fatti. Questo tipo di giornalismo oggi è molto marginale, si potrebbe dire che è di nicchia, non perché sia d’élite ma perché è un fenomeno che coinvolge pochi. È mutato il fine, ma soprattutto l’approccio: adesso abbiamo un giornalismo low-cost, che si affida completamente al lavoro della magistratura, che non va in trincea, per evitare l’esposizione diretta ai poteri criminali e alle repliche giudiziarie e garantirsi così una carriera all’interno di un giornale».

Sulla importanza dei nuovi mezzi di comunicazione e le difficoltà in cui si trova il giornalismo d’inchiesta è intervenuta Rosa Maria Di Natale, dichiarando che «purtroppo non tutti sono disposti a fare inchieste, perché richiedono tempi lunghi e sacrifici. La mia esperienza, però, mi dice che se una cosa la vuoi fare la fai anche senza avere un giornale che ti supporta: le autoproduzioni sono fondamentali e oggi sono possibili grazie agli strumenti digitali e al web».
Il senatore Giuseppe Lumia ha colto l’occasione anche per riflettere sul ruolo che il giornalismo dovrebbe avere per l’antimafia: «In Italia dobbiamo fare i conti con un’organizzazione mafiosa che sa integrare i vari aspetti del sistema criminale, dai killer fino alle più sofisticate forme di riciclaggio. Invece l’antimafia si muove spesso in una sola direzione e dividendosi in tante antimafie, quella culturale, quella sociale, d’azione ecc. L’antimafia che dovremmo esercitare è quella che sa scovare e capire le integrazioni tra i vari sistemi della mafia e abbiamo bisogno del giornalismo che sa vedere e raccontare queste forme di integrazione».

È stato sottolineato con forza il ruolo che l’informazione ha, o dovrebbe avere, nel mettere in luce e combattere le relazioni tra la criminalità organizzata e la politica e la sua utilità sociale nella lotta alla mafia, come emerge dalle parole di Paolo Caligiore: «Quando 19 anni fa è nata la nostra associazione gli organi di informazione non hanno parlato di noi e della nostra lotta se non dopo cinque mesi, quando il nostro gesto di protesta di organizzare delle ronde per proteggerci dal pizzo fece scalpore. Questo non vuol dire che io sono d’accordo con la proposta del governo sulle ronde: una cosa è farle per sollecitare la protezione che lo Stato ci deve, un’altra è che lo Stato le istituzionalizzi ammettendo la sua incapacità di fare il suo dovere. In tutti questi anni, comunque, alcune cose sono cambiate: per esempio, prima il nostro problema non era considerato di pertinenza del prefetto, adesso la Prefettura è la nostra casa. Ma dobbiamo ancora lavorare molto per combattere soprattutto contro la cultura mafiosa, che non appartiene purtroppo solo ai mafiosi propriamente detti, e per farlo abbiamo bisogno delle istituzioni, dei cittadini, ma anche di giornalisti che sappiano fare il loro mestiere, come lo faceva Fava».

Le cose sono cambiate e oggi i giornali parlano di mafia; questo non vuol dire però che lo facciano perseguendo il fine e utilizzando le modalità del giornalismo etico di Fava: «La sociologa Graziella Priulla – sottolinea Ruta – ha detto che dal silenzio sulla mafia si è passato al rumore, al vociare indistinto, e da entrambi non si ricava verità. Scrivere di mafia, infatti, è cosa diversa dal fare inchieste sulla mafia. Il giornalista non è più cane da guardia della democrazia ma servo di una parte».
A questa tendenza di un giornalismo pigro e di parte si oppone Antonella Mascali: «Non concepisco altri tipi di giornalismo diverso da quello che racconta i fatti. Sono dovuta andare via da Catania, perché non c’erano realtà dove potevo esercitare il lavoro di giornalista come volevo farlo io. “La Sicilia” è ancora l’unico quotidiano della città e tra le cose che ha saputo fare negli ultimi anni c’è stata la pubblicazione della lettera del figlio di Santapaola, detenuto in regime di 41bis».
«In generale, uno dei maggiori problemi del giornalismo italiano – denuncia la Mascali – sono i telegiornali. Alcuni servizi sono un’offesa alla verità. Purtroppo, la maggior parte degli italiani si informa solo attraverso i Tg. Per questo oggi sono fondamentali gli strumenti on-line come i blog, youtube, che possono contrastare la cattiva informazione e soddisfare la voglia di conoscere la verità, i fatti».
La giornalista si è poi soffermata sull’esperienza de “Il fatto quotidiano”: «Questo giornale, nato lo scorso settembre, ha già 45.000 abbonati e riesce a vivere anche se ha rinunciato ai finanziamenti pubblici: un segnale che la gente ha ancora voglia di informarsi. Per poter fare bene il lavoro di giornalista c’è bisogno del sostegno dei lettori che devono premiare i giornali che informano veramente sui fatti, fare il passaparola sugli organi di informazione che meritano e non essere pigri».

Inevitabile, in un dibattito sui rapporti tra mafia e potere, è stato il riferimento da parte di un ascoltatore al recente faccia a faccia tra la giornalista catanese e il senatore Marcello Dell’Utri: «Con Dell’Utri ho fatto solo il mio dovere di giornalista: ho fatto delle domande, ma non ho ricevuto risposte, solo insulti. Degli insulti non mi importa, però, Dell’Utri mi ha anche detto, quando alla sua domanda sulle mie origini ho risposto che sono siciliana, che appartengo alla parte marcia della Sicilia. Voglio solo dire che sono orgogliosa di stare in quella parte, diversa dalla sua».
«Ai giornalisti spetta fare le domande e ai politici fornire le risposte». Così Pino Finocchiaro chiude il dibattito.


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