Quattro testimoni sono stati ascoltati durante l'udienza al tribunale di Pisa del processo per l'omicidio volontario aggravato del parà siracusano. La ricostruzione dei tre giorni dalla morte al ritrovamento del cadavere. Solo uno degli imputati era presente in aula
Caso Scieri, sul luogo del crimine «una tavoletta con chiodi» Un colpo di scena sulla presenza di un caporale in caserma
Una «tavoletta di legno con chiodi che sporgono» che, come scritto in una relazione di un carabiniere della stazione all’interno della caserma Gamerra di Pisa, fu ritrovata sul luogo del crimine – sotto la torretta di asciugatura dei paracadute – ma che non sarebbe stata presente al momento del ritrovamento del corpo senza vita di Emanuele Scieri nell’agosto del 1999. È uno dei punti principali venuto fuori durante l’udienza di ieri del processo con rito ordinario per l’omicidio volontario aggravato del parà siracusano. Procedimento in cui sono imputati gli ex caporali Alessandro Panella e Luigi Zabara, quest’ultimo come sempre presente in aula. Sono stati invece assolti in primo grado il sottufficiale dell’esercito Andrea Antico per lo stesso reato e gli ex ufficiali della Folgore Enrico Celentano e Salvatore Romondia che erano accusati di favoreggiamento. Per questo la procura ha fatto appello.
L’udienza di ieri è stata dedicata ad altri quattro degli oltre cento testimoni previsti. I caporali Emanuele Cinelli e Stefano Ioanna non si sono presentati in aula. Quest’ultimo, per cui era stato già previsto l’accompagnamento coattivo, ha presentato un certificato medico; mentre il primo ha prodotto una giustificazione motivata con una febbre alta. A parlare della «tavoletta di legno con chiodi che sporgono» è stato il brigadiere Carmelo Caricato che lo aveva già fatto, come richiesto, in una relazione di settembre del 1999. Lui che la caserma la conosceva bene, il giorno del ritrovamento del cadavere di Scieri (il 16 agosto) viene messo a presidiare il nastro bianco e rosso che delimita la scena del crimine. È lui una delle persone che, dopo l’arrivo del medico legale, apre il marsupio del parà, prende i documenti per riconoscerlo e il cellulare per scoprire il numero. Ha raccontato che all’arrivo di Celentano sul posto è stato lui a bloccarlo per non farlo andare oltre e a ricevere in risposta un secco “Buon lavoro” dal comandante della Folgore che, passati non molti minuti, è andato via.
A raccontare cosa è successo prima e dopo, è l’aiutante Raffaele Iubini che il 16 agosto è in auto con Celentano. Solo circa le 14 e i due devono andare insieme a controllare un cantiere. Dopo circa dieci o quindi minuti in macchina, il generale Celentano riceve una chiamata. Quella in cui gli viene comunicata la notizia del rinvenimento di un cadavere non ancora identificato alla Gamerra. Così si cambia programma. Secondo quanto riferito ieri da Iubini in aula, probabilmente Celentano non sarebbe nemmeno riuscito a vedere il corpo. Quello su cui è certo è che in caserma non sono stati accolti da nessuno degli ufficiali e che nessuno è andato da loro a relazionare quanto accaduto. Un’anomalia che gli avvocati di parte civile Alessandra Furnari e Ivan Albo hanno sottolineato. Così, dopo poco, vanno via. Lungo la strada del ritorno – il sopralluogo al cantiere è ormai saltato – Celentano avrebbe chiesto a Iubini: «Come la vedi questa situazione?». «Io ho risposto: “Per me è un guaio grossissimo – ha riferito il teste – Forse sono stato egoista perché non ho pensato alla vittima. Durante il viaggio mi sono concentrato piuttosto sugli angoli bui e gli anfratti delle mie caserme dove sarebbero potute succedere cose del genere». Iubini ha inoltre riferito che, lungo il tragitto, Celentano non gli avrebbe mai raccontato di avere fatto un’ispezione alla Gamerra proprio la notte precedente.
Di un’altra ispezione ha invece parlato l’istruttore di paracadutismo Alessandro Bellettini. Il giorno di Ferragosto è lui l’ufficiale di picchetto. Incrocia in caserma Romondia che, intento a fare una corsetta, gli consegna un foglietto su cui sono appuntati due numeri: quello di casa e quello del cellulare di Scieri. «Mi disse: “Non lo troviamo da due giorni e non sappiamo dove sia. Prova a fare delle chiamate». E così, dai tentativi fatti dal centralino, al fisso non risponde nessuno (perché i familiari di Scieri in estate si trasferivano da Siracusa alla casa di Noto) mentre il telefonino risulta spento o irraggiungibile. Questo nonostante chi poi trova il cellulare ha sempre raccontato che fosse acceso. Intorno alle 21.30 di quel 15 agosto, Bellettini ha raccontato di avere visto il comandante Pierangelo Corradi (deceduto) al centro del piazzale della caserma. Dopo averlo raggiunto per mettersi a disposizione, Corradi gli spiega che sta facendo un’ispezione e Bellettini lo segue. «Non era né presto, né tardi, un orario ibrido» per un’ispezione, tra l’altro di una domenica festiva di agosto.
Un colpo di scena è arrivato poi durante l’audizione del caporale graduato Ivan Mesiti, uno di quelli che è stato condannato – e ha patteggiato – per concorso personale in violenza aggravata contro inferiori in merito alle condizioni del viaggio in bus del 13 agosto 1999: i finestrini chiusi, riscaldamento acceso, rigoroso silenzio, divieto assoluto di addormentarsi, obbligo di stare seduti tenendo la posizione della sfinge. Quella sera Mesiti era in licenza ma va a ballare, con due colleghi (Francesco Infantino e Francesco Simula), in un locale di Marina di Pisa e, quando si ritira nelle mattinate, va a dormire in caserma. Durante quella serata in discoteca, Mesiti ha dichiarato di avere incontrato il caporale Ara. «Ci siamo anche salutati e non mi posso sbagliare o confondere perché quella è l’unica sera in cui io sono andato a ballare». Una testimonianza che va in senso opposto a quanto sempre dichiarato dallo stesso Ara ma che è concorde, invece, con i ricordi del testimone chiave Alessandro Meucci. L’ex commilitone di Scieri che era di servizio come piantone alla camerata la sera dell’omicidio e che ha raccontato di avere visto rientrare Panella, Antico e Zabara dopo il contrappello «molto agitati, terrorizzati, parlottavano tra sé e sudavano freddo» e di avere sentito la frase “l’abbiamo fatta grossa“». Poi proprio da uno di loro sarebbe stato minacciato: «Guarda che se parli ti ammazzo». Meucci – che non è stato ritenuto pienamente affidabile dal gup del processo abbreviato dove i tre imputati sono stati assolti in primo grado – aveva proprio indicato Ara come presente in caserma quella notte.