In 412 pagine sono raccontati anni di perizie, indagini, interrogatori, tutto l'iter che ha condotto alla sentenza che certifica che l'uomo in carcere non era il boss della tratta di esseri umani, che avrebbe comunque aiutato alcuni amici a partire verso l'Europa
Caso Mered, ecco le motivazioni della Corte d’assise Le tappe del processo, tra errori e scambi di persona
«In conclusione, gli esiti della complessa attività istruttoria svolta, nel restituire un granitico quadro probatorio in ordine all’identità dell’imputato acclarano l’errore circa l’identificazione del predetto, il quale è persona fisica diversa dal trafficante ricercato (Mered Medhanie Yehdego ndr) e risponde alle generalità di Medhanie Tesfamariam Berhe, nato in Eritrea il 12 maggio 1987». Ci sono volute 412 pagine, buona parte delle quali riguardanti il caso Mered, ai giudici della seconda sezione della Corte d’assise di Palermo per raccontare le motivazioni, la vita di un procedimento giudiziario fino alla sua conclusione. Pagine in cui vengono descritte in dettaglio tutte le fasi del processo, dall’arresto agli esami infiniti: Dna, perizia fonica, perizia calligrafica, talvolta anche ripetuti. Tra le righe passano veloci mesi e mesi di udienze, testimonianze, fotografie confrontate, documenti prodotti.
E nelle motivazioni non si tralasciano nemmeno gli errori più grossolani: «Va in ultimo evidenziato – si legge – che con riguardo alle conversazioni estrapolate da Facebook Messenger, intercorse tra “Medhanie Meda” e altri utenti di volta in volta specificati, è stato segnalato come le parole “parika” e “mesi”, riscontrate in dette conversazioni, siano state tradotte nell’elaborato “in maniera del tutto erronea, tali da modificare il senso effettivo delle frasi e da indurre l’Autorità procedente addirittura alla contestazione di fatti illeciti avvenuti in concorso con avverbi o proposizioni semplici“». Tutte le tappe che in tre lunghi anni hanno portato, infine, alla sentenza: «Si impone una pronunzia di non doversi procedere per errore di persona, trattandosi di imputazioni elevate a carico del predetto imputato, sulla base dell’assunto, rivelatosi errato, che questi dovesse identificarsi in Medhanie Yehdego Mered, nato in Eritrea l’1 gennaio 1981, soggetto che, allo stato, deve ritenersi ancora in libertà».
Una gioia a metà per Behre, visto che è stato comunque condannato a cinque anni e sei mesi di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Condanna nata dal fatto che l’eritreo avrebbe aiutato almeno quattro persone a compiere il viaggio verso l’Europa. Un aiuto che l’ormai ex imputato non ha mai negato, ribadendo però di non avere mai fatto parte di nessuna organizzazione, né tanto meno di avere ricevuto un compenso. «Io aiutavo qualcuno non economicamente – dichiara interrogato dai magistrati – perché non ne ho, economicamente non ne ho la forza per mandare in Europa, però moralmente aiutavo». E ancora, come si legge nelle motivazioni: «L’imputato ha spiegato di essersi attivato affinché il corrispettivo dovuto per l’ultima parte del viaggio, “via mare”, pervenisse al trafficante di uomini di nome Aboubakar, con la cui organizzazione era partito il cugino Gerie».
Behre, assistito dall’avvocato Michele Calantropo, deve ora decidere se ricorrere in appello contro la condanna, convinto com’è di non avere compiuto nulla che avesse a che fare con le organizzazioni criminali che trafficano esseri umani, ma di avere semplicemente dato una mano ad alcuni suoi parenti e conoscenti a compiere la traversata, una traversata che anche lui, scappato dall’Eritrea e rifugiato in Sudan, presto o tardi – pare – avrebbe voluto fare. Il vero Mered, il generale di cui tanto si è parlato negli ultimi anni, intanto, è ancora in libertà.