Dovrebbe essere il colore della calma e del benessere. Era invece quello della violenza e della perdita della dignità. Si chiamava, con involontaria ironia, sezione Blu quella del carcere Pietro Cerulli di Trapani destinata all’isolamento dei detenuti. La stessa in cui si sono svolti i fatti al centro dell’inchiesta che ha portato a 46 indagati, tra cui 25 agenti di polizia penitenziaria raggiunti da ordinanze di custodia cautelare e misure interdittive per i reati, a vario titolo, di tortura, abuso d’autorità contro i detenuti e falso ideologico. Dal lancio di secchi di acqua e urina alle botte, passando per le perquisizioni immotivate condotte sui reclusi costretti a sfilare nudi per i corridoi. In un contesto di degrado anche strutturale, più volte denunciato da associazioni e sindacati della stessa polizia penitenziaria. Abusi condotti per lo più su detenuti che lì non avrebbero neanche dovuto starci, considerati i problemi psichiatrici di cui molti soffrivano.
Secondo gli ultimi dati disponibili, a luglio 2023 il carcere di Trapani è tra i pochi a non soffrire un grave problema di sovraffollamento. Con 527 detenuti – meno degli anni precedenti – a fronte di 249 agenti penitenziari, 51 in meno di quelli previsti in pianta organica. Comune ai tre reparti in cui è diviso l’istituto è proprio la sezione Blu, destinata all’isolamento e, fino a prima delle indagini, l’unica priva di videosorveglianza: 16 celle singole, di cui una con bagni e docce e l’altra adibita a infermiera o per i colloqui con psicologi ed educatori. Tra queste c’è la numero 5, denominata cella liscia perché del tutto spoglia, per accogliere reclusi autolesionisti o con intenti suicidi. «Un reparto da chiudere», lo aveva definito senza mezzi termini l’associazione Nessuno tocchi Caino che, lo scorso anno, ha condotto lì due visite: a febbraio e a giugno. Raccontando di condizioni «inumane e degradanti», con tanti carcerati che «presentano disagi mentali tali che risulta difficile parlare con tutti i presenti». Patologie di certo non alleviate dalle condizioni della sezione.
«Nella parte più bassa, buia e sperduta del carcere. Nella sezione Blu le celle misurano due metri per quattro – si legge nel report dell’associazione, citata dai magistrati – La luce filtra a malapena da una finestrella di 50 centimetri per 40 posta in alto a 25 centimetri dal soffitto. Una fila di sbarre e l’aggiunta di una rete a trama molto fitta impediscono anche all’aria di scorrere libera». Stessa situazione del piccolo cortile dove si svolgeva, uno alla volta, l’ora d’aria: «Una vasca di cemento di due metri per nove, con le mura altissime e la rete sopra come quella di un pollaio». E non andava meglio all’interno delle celle, quasi tutte con il gabinetto alla turca e a vista. Ma erano due in particolare a offrire le condizioni peggiori: le numero 3 e 5, ribattezzate «le celle della tortura», dove «lo scarico risulta otturato, non c’è acqua e le mura sono sporche di sangue», racconta un detenuto. Le stesse, sempre secondo il recluso, sarebbero state le preferite degli agenti da destinare ai casi ritenuti più problematici, per «finalità ritorsive». Conducendo i reclusi in cella completamente nudi, anche davanti alla presenze di personale femminile, come infermiere e dottoresse, e, spesso, accompagnando il percorso con calci e pugni. Carenze che, ad agosto dello scorso anno, portano alla chiusura della sezione Blu per dei lavori strutturali, ma non prima di aver permesso agli investigatori di piazzare telecamere e microspie.
A dare origine all’indagine è la denuncia presentata a settembre 2021 dal detenuto Giuseppe Albano. Dopo essere stato trasferito nella sezione Blu e aver dato fuoco alla cella in segno di protesta, racconta di essere stato aggredito con un calcio allo stinco e un pugno alla nuca dagli agenti penitenziari. I quali avrebbero anche usato contro di lui un estintore. «E, credo il responsabile del reparto colloqui,
mi sputò in faccia», racconta Albano nella sua denuncia. Non proprio un caso isolato, secondo lo stesso, che nei cinque giorni trascorsi nella cella liscia avrebbe sentito i rumori e le grida di altri pestaggi. «Tengo a precisare che i cosiddetti picchiatori sono sempre gli stessi e non sono tutti, perché ci sono dei poliziotti che sono veramente dei padri di famiglia», specifica Albano. È a quel punto che ai detenuti coinvolti viene mostrato un album con le foto di tutti gli agenti, chiedendo di indicare chi avesse l’abitudine di usare violenza. Indicazioni che hanno convinto gli inquirenti e la procura a installare due telecamere tra i corridoi del reparto.
La videosorveglianza rimanda agli inquirenti gli strani movimenti degli agenti, che spesso entrano in massa nelle celle dei detenuti protagonisti delle proteste. Fino a registrare vere e proprie violenze fisiche, per poi, invece, non intervenire durante le risse. Comportamenti non certo previsti, così come il gran numero di perquisizioni – mai richieste da nessun superiore né dal regolamento – e condotte in modo violento e degradante. Come il caso – non isolato – di un detenuto di origine maliana portato in cella scalzo, in mutande e con le braccia bloccate dietro la schiena, senza alcuna necessità. E poi spogliato davanti a sette agenti, che si intrattenevano prendendolo in giro e commentando la grandezza del suo pene. Ma le violenze e le umiliazioni non finivano una volta arrivati in cella. Capitava, infatti, che durante la notte gli agenti penitenziari decidessero di lanciare dei liquidi – in almeno un caso, un secchio di acqua e urina – all’interno, per sedare una lamentela o per far cessare una richiesta d’assistenza. Fino a metodi più sottili e pericolosi: come una sigaretta intrisa di medicinale, forse un calmante, passata dalle guardie a un detenuto. Rimedio così estremo da preoccupare persino un altro agente: «No, questa no, c’ho paura che arriva a morire – prova a dire al collega – E se è allergico?».
E, in almeno un caso, un detenuto è in effetti arrivato a morire. Seppure fuori dal carcere di Trapani. Durante la visita di giugno 2023 dell’associazione Nessuno tocchi Caino, sono i volontari a notare «un evidente caso psichiatrico»: era Domenico Lauria, allora 27enne, originario di Giostra, nel Messinese. Recluso nella cella numero 7 per reati legati all’uso di droga – furto, rapina ed evasione dai domiciliari -, così tanti da aver accumulato una pena di poco più di undici anni. Osservato a vista, Lauria – anche in ragione delle perizie psichiatriche che ne attestavano l’invalidità civile al 75 per cento – aveva richiesto il trasferimento a Barcellona Pozzo di Gotto, nell’articolazione carceraria per la tutela della salute mentale (Atsm). Più vicino alla famiglia, che avrebbe potuto seguirlo con maggiore costanza. Quando incontra i volontari dell’associazione, Lauria è a Trapani da un anno e sei mesi, «parla in continuazione ed è pieno di tagli soprattutto sulle braccia». È lui stesso a raccontarlo: «Mi taglio tutti i giorni, mi impicco tutti i giorni, mi vogliono portare alla morte. Sei o sette volte sono riuscito ad andare in ospedale, uscendo da questo inferno». Nel carcere di Trapani, secondo i suoi racconti, avrebbe ricevuto almeno 15 trattamenti sanitari obbligatori (tso). In quanto tossicodipendente, veniva trattato col metadone, ma «mi danno un dosaggio troppo basso e non mi fa niente». Venerdì scorso, il 15 novembre, Lauria è morto nel carcere di Catanzaro, dove era stato trasferito senza avvertire la famiglia. Dopo essere passato da Palermo e Rossano Calabro, nel carcere definito la Guantanamo d’Italia. «Arresto cardiaco», la causa della morte. Una spiegazione comune che non soddisfa i familiari, assistiti dall’avvocato Pietro Ruggeri, specie a fronte delle ferite e dei lividi sul corpo dell’ex detenuto. Tanto da sporgere una denuncia, che ha portato all’apertura di un fascicolo alla procura di Catanzaro e alla disposizione dell’autopsia sul corpo del giovane. Oggi si terrà il suo funerale.
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