Tra gli arrestati dell'operazione di ieri ci sono gli uomini ritenuti responsabili dell'omicidio di Adnan Siddique, l'ex bracciante 32enne che si era ribellato al sistema dello sfruttamento dei lavoratori. Si credevano «i padroni della città»
Caporalato, banda «diffondeva il terrore» con la violenza Nonostante l’Attila pakistano le vittime hanno denunciato
Dove passava lui non sarebbe più dovuta crescere l’erba. E, invece, al re degli Unni pakistano – da cui prende il nome Attila, l’operazione che ieri ha portato all’arresto di 12 persone – il detto non si addice del tutto. Il 27enne Muhammad Shoaib, accusato di essere stato il promotore dell’associazione straniera dedita allo sfruttamento del lavoro nei campi del Nisseno e ritenuto anche uno dei colpevoli dell’omicidio del 32enne Adnan Siddique, era sì temuto ma non al punto di inibire le denunce.
«La principale fonte di prova – si legge nell’ordinanza – sono le dichiarazioni delle vittime, peraltro formulate quasi sempre nell’immediatezza dei fatti e sempre su iniziativa stessa dei dichiaranti che non hanno mai mostrato un atteggiamento omertoso». E, questo, nonostante il timore per le possibili ripercussioni. Anche dopo essere state ulteriormente minacciate e aggredite affinché ritrattassero le accuse, molte vittime sono tornate a raccontare tutto alle forze dell’ordine.
Così è emerso un «controllo brutale e violento del territorio ai danni soprattutto della comunità pakistana ed extracomunitaria in generale». La banda, composta da undici uomini del Pakistan (tutti finiti in carcere), una ragazza italiana (ai domiciliari) – tutti tra i 20 e i 48 anni – e altri ancora da individuare, avrebbe gestito l’attività di intermediazione tra i datori di lavoro e i lavoratori agricoli pakistani. Tutte le vittime hanno confermato che gli indagati erano «dei veri e propri caporali»: dal reclutamento della monodopera, alla determinazione del compenso (inferiore rispetto a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro e spesso in nero) e della percentuale da dare a loro.
Per «diffondere il terrore nel territorio», i caporali avrebbero avuto comportamenti minacciosi e violenti fino al punto di organizzare spedizioni punitive in gruppi armati contro chiunque avesse chiesto di essere pagato per le ore di lavoro svolte o si fosse opposto al sistema. In particolare, Muhammad Shoaib e suo fratello Bilal Ahmed si sarebbero vantati di essere «i padroni della città» ai quali nessuno avrebbe dovuto osare di opporsi. Non solo sfruttamento del lavoro, quindi, ma anche estorsioni, sequestri di persona a scopo estortivo, rapine, lesioni e pure un omicidio.
«Apri, altrimenti sfondo la porta e ti ammazzo». È il 2 dicembre del 2019 quando per la prima volta Muhammad Shoaib si presenta davanti alla porta d’ingresso di Adnan Siddique, in via San Cataldo nel quartiere Strada Foglia a Caltanissetta. Il 32enne, che in passato era stato un bracciante agricolo e che si era fatto portavoce di altre vittime di caporalato, in quell’occasione si barrica in casa. Poi denuncia. Esattamente sei mesi dopo, Siddique viene ucciso con cinque coltellate. Oltre a Shoab, dell’omicidio sono accusati Bilal Ahmed, Alì Imran, Sharjell Muhammad Awan, Nawaz Muhammad e Shujaat Ali (tutti arrestati anche ieri).
Da alcuni braccianti avrebbero preteso parte dello stipendio e, di fronte al rifiuto, avrebbero reagito con violenza. Usando non solo le mani, ma anche bastoni ferrati o piedi di tavolini di legno. In una circostanza, un giovane originario del Ghana sarebbe stato costretto, con un coltello puntato alla gola, a commettere un furto in una casa di campagna. E quando convincere le vittime sembra più difficile, la banda mette in atto anche dei sequestri di persona. L’11 maggio del 2019 partono in 14 (sei sono ancora in corso di identificazione). Stando a quanto ricostruito durante le indagini, avrebbero afferrato la vittima per le caviglie e le spalle, e l’avrebbero posizionata sui sedili posteriori dell’auto. Arrivati in una casa, lo avrebbero lasciato a terra in una stanza semivuota e, dopo averlo accerchiato, gli avrebbero puntato un coltello alla gola. Così lo avrebbero tenuto per oltre tre ore per convincerlo a chiamare il padre in Pakistan per avere cinquemila euro in cambio della liberazione. Venti giorni dopo la stessa scena si ripete con un’altra vittima: dopo percosse alla testa e alla schiena, l’intimazione di chiamare il fratello in Pakistan per chiedere il prezzo (tremila euro) della sua libertà.
Non solo affari per sé, ma anche vendette organizzate per altri. Il 10 dicembre dell’anno scorso, alcuni degli indagati – sempre con a capo Shoaib – fanno irruzione nel centro per minori stranieri non accompagnati I girasoli di Milena, in provincia di Caltanissetta. Entrati con la complicità di un minore, mettono tutto a soqquadro. L’obiettivo sarebbe stato quello di aggredire un ospite con cui, il giorno prima, il minore aveva avuto un diverbio. Dopo essersi vista una pistola puntata, la vittima è riuscita a fuggire lanciandosi da una finestra della struttura. Nel tentativo di raggiungerlo, alcuni degli indagati avrebbero anche colpito altri due ospiti con una coltellata e un pugno.
In carcere
1. Muhammad Shoaib, nato in Pakistan (classe 1993), già detenuto per altra causa;
2. Muhammad Sharjeel Awan, nato in Pakistan (classe 2000), già detenuto per altra causa;
3. Bilal Ahmed – detto Muhammmad Bilal – nato in Pakistan (classe 1997), già detenuto per altra causa;
4. Mohsin Ali, nato in Pakistan (classe 1988);
5. Shehzad Khuram, nato in Pakistan (classe 1987);
6. Arshad Muhammad, nato in Pakistan (classe 1983);
7. Mubashar Hasan, nato in Pakistan (classe 1984);
8. Alì Imran – detto Muhammad Cheema – nato in Pakistan (classe 1992), già detenuto per altra causa;
9. Shujaat Ali, nato in Pakistan (classe 1988), già detenuto per altra causa;
10. Muhammad Mehdi, nato in Pakistan (classe 1972), già detenuto per altra causa;
11. Nawaz Muhammad, nato in Pakistan (classe 1988), già detenuto per altra causa;
Agli arresti domiciliari
12. Giada Giarranata, nata a San Cataldo (classe 1999).