Nel 1997 sono stati chiusi i cantieri, affidati a una ditta del gruppo Rendo. Da allora l'opera, al centro delle inchieste di due procure, è rimasta sigillata. Sull'opportunità di fare ripartire i lavori si sono espressi molti politici regionali, e gli agricoltori sperano da decenni. Ma l'ingegnere Roberto De Pietro ne sostiene la demolizione
Caltagirone, diga incompiuta sul sito archeologico L’esperto: «Non va finita, bisogna abbatterla tutta»
«La diga di Pietrarossa è un’opera da demolire. Oltre a essere un abuso in un sito archeologico, si caratterizza per irregolarità e violazioni di legge». È questo quello che emerge dal lungo studio di un ingegnere catanese, Roberto De Pietro, sull’invaso del Calatino, precisamente a confine tra il territorio di Catania e quello di Enna, incompiuto ormai da 27 anni. A riportarlo all’attenzione generale è stato di recente il deputato regionale Nello Musumeci che ne chiede il completamento. «La diga è stata pensata in un periodo in cui opere simili si realizzavano in Sicilia con fortissime pressioni politico-clientelari, violando leggi, a volte in modo sfacciato», aggiunge l’esperto. L’invaso è stato finanziato nel 1988 con soldi pubblici, oltre 170 miliardi di lire, e i lavori sono stati sospesi per la prima volta nel 1990 per via del ritrovamento di un insediamento archeologico di epoca romana. Ma non solo. «I lavori furono eseguiti senza autorizzazioni, sprovvisti del preventivo nullaosta della soprintendenza di Enna e senza essere sottoposti a una valutazione di impatto ambientale», continua De Pietro.
«La diga sbarra l’omonimo torrente che cade nel bacino del Simeto e, se entrasse in funzione, aggraverebbe l’arretramento del litorale sabbioso in prossimità della foce del Simeto. Questo processo – continua l’ingegnere etneo – è stato dimostrato che si deve proprio alle dighe». «La soluzione è ripristinare il regime idrologico e sedimentologico del fiume, eliminando alcune opere costruite nel suo bacino, partendo da quelle incomplete come appunto la diga di Pietrarossa», sottolinea l’esperto. Il quale continua: «Da tempo ci si è accorti che le opere di sbarramento dei corsi d’acqua determinano prosciugamento dei fiumi, abbassamento delle falde acquifere, alterazione degli ecosistemi, danni alla flora e alla fauna, in particolare a quella ittica, compresa l’estinzione delle specie». Peraltro, secondo gli studi dell’ingegnere De Pietro: «Lo squilibrio tra i costi economici e ambientali che l’opera dovrebbe apportare emerge senza spingersi nemmeno verso analisi approfondite. È stata, inoltre, concepita in un periodo in cui le spinte per realizzare tali opere derivavano non dall’utilità del costruire più che dall’opportunità», afferma.
La storia della diga comincia nel 1988. Ad aggiudicarsi l’appalto per la maxi-opera, che prevede uno stanziamento di fondi da 170 miliardi da parte della Cassa del Mezzogiorno è, all’epoca, la ditta Lodigiani-Cogei del gruppo Rendo, legato a quel Mario Rendo che per il giornalista Giuseppe Fava era uno dei Cavalieri dell’Apocalisse mafiosa. L’obiettivo dell’invaso è potenziare la copertura di irrigazione dei campi della Piana di Catania, complessivamente oltre 17mila ettari. Senza la diga sono solo seimila quelli che possono essere riforniti. A cantiere aperto, però, qualcuno si accorge che alla ditta manca il visto della Soprintendenza e, effettivamente, l’anno dopo, dal terreno sbucano i resti di una villa d’epoca romana. A quel punto scatta una prima inchiesta, coordinata dalla procura di Enna, ma gli operai continuano a lavorare fino al 1993 e il sito archeologico – pare un deposito di derrate alimentari, accanto al quale sorge un castello di epoca medievale – subisce i primi danni.
Nel 1995, due anni dopo, spuntano le prime lesioni alla diga. L’impresa Lodigiani-Cogei sostiene che è un effetto del devastante terremoto del 1990 e chiede un ulteriore finanziamento pubblico da 20 miliardi per la riparazione. La procura di Caltagirone, che nel frattempo ha avviato un’inchiesta, scopre però che i danni sarebbero dovuti a errori nella costruzione e che l’impresa avrebbe tentato una truffa. È nel 1997, infine, che i magistrati di Enna emettono il provvedimento di sequestro della diga di Pietrarossa – dove, nel frattempo, i lavori edili continuavano come se nulla fosse – e dodici avvisi di garanzia per abuso, rifiuto di atti d’ufficio, deturpamento di bellezze naturali e archeologiche.
La chiusura del cantiere, però, determina negli anni le proteste degli agricoltori dei diversi consorzi che insistono nell’area e le promesse della politica regionale di far ripartire i lavori. Si alternano, in ordine, i ripartiremo dei presidenti della Regione Sicilia Totò Cuffaro, Raffaele Lombardo, Rosario Crocetta e, in ultimo, del parlamentare all’Ars Nello Musumeci che ha depositato un’interrogazione in cui chiede di completare l’opera. «La diga di Pietrarossa è un’opera da demolire», ribadisce l’esperto. Secondo il quale, invece, più che cercare di riprendere i lavori lasciati incompiuti, sarebbe il caso di pensare «a cosa fare di quel territorio dove c’è un insediamento di epoca romana e il castello di Mongialino o di Monte Alfone, d’epoca medievale», conclude.