Quand’ero giovane, nel secolo trascorso, io feci per qualche tempo il portiere. Non ero granché: non mi mancavano il coraggio di buttarmi per terra, né l’incoscienza di immergere la testa tra gli stinchi degli avversari. In più, possedevo doti acrobatiche sufficienti a far sembrare eroiche delle parate tutto sommato ordinarie. Il problema era un altro: mi mancava quella dote che, aggiunta alle qualità di un portiere qualunque, ne fa un portiere buono: quella dote che sbrigativamente si suol chiamare sicurezza, e che essenzialmente consiste nella capacità di attraversare senza cali di tensione un’intera partita in cui non si subiscono tiri in porta, e poi farsi trovare pronto all’unica occasione in cui gli avversari si presentano alla conclusione. Pronto a fare quella parata – una sola, ma necessaria e decisiva – che renda il portiere, insieme ai suoi compagni, protagonista del risultato.
Purtroppo non ero quel tipo di portiere. E non che non mi impegnassi, tutt’altro. Mi piacevano anzi gli scontri impari, le partite in cui il calcio sembrava trasformarsi nel gioco che da ragazzi chiamavamo porta romana, gli assedi nella mia area di rigore nei quali la squadra faceva affidamento su di me per limitare, quantomeno, i danni dovuti al divario con l’avversario. Cosa avevo da perdere, in fondo? Se fosse andata male, la colpa non sarebbe stata mia. E se invece fosse andata bene, sarei uscito dal campo come un eroe. In più, per la legge dei grandi numeri, in quelle gare in cui gli avversari bombardavano la mia porta, doveva per forza capitare che un certo numero di palloni si infrangessero sul mio corpo, o finissero la loro traiettoria tra i miei guanti. E sarebbero stati momenti, per quanto brevi, di solitaria gloria.
In ogni caso, per il portiere che ero, le squadre forti non mi chiamavano mai. Rischiavo di essere superfluo, se le cose andavano bene; o di essere additato come palla al piede della squadra se mai avessi preso gol, foss’anche senza colpe, all’unico tiro subito. Di conseguenza, finivo sempre per giocare in squadre scarse. E anche per questo, nei miei modestissimi ricordi di calciatore, non c’è la morbida erba di cui profumano le nostalgie dei portieri degni di questo nome, ma solo la sabbia tagliente dei campetti delle nostre periferie. Una sabbia su cui i palloni perdevano presto la copertura per ridursi a ruvide poltiglie di tessuto grigio. E su cui, più che i costosi guanti in lattice con cui si assicura la morbida presa delle mani sul cuoio lucido e liscio, funzionavano i vecchi guantoni zigrinati come scadenti racchette da ping pong. Che affidavano la cattura della palla al principio dell’attrito.
Fatte le dovute proporzioni, e considerato il portiere che ero, avrei dato il meglio di me giocando con una squadra simile alla Lupa Castelli Romani. Squadra ultimissima in classifica della Lega Pro, con soli otto punti e, prima di ieri pomeriggio, con ben cinquantaquattro gol subiti. Squadra dunque predestinata dal pronostico a subire l’assedio del più motivato e teoricamente più forte Catania. E che quindi offriva al portiere – che era per l’occasione un tal Riccardo Tassi – l’opportunità di diventare protagonista positivo della gara. O, se non altro, di uscire dal campo da vittima incolpevole della maggior forza degli avversari.
Così non poteva essere, però, in questo campionato di Lega Pro che perverte ogni nostra pur ragionevole speranza. Se il portiere Tassi non avesse fatto una solenne cavolata su un cross di facile controllo indirizzato verso la propria area di rigore, sarebbe uscito dal campo con la porta inviolata e i guanti immacolati. Quasi che tra il Catania e la Lupa, per i valori espressi in campo, la squadra più forte, quella in grado di controllare la partita e condurla verso il più tranquillo zero a zero, fosse proprio quest’ultima.
Sia lode a Tassi, dunque, che ha regalato al Catania una boccata d’ossigeno che, a giudicare dal gioco, la squadra non ha precisamente meritato.
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