«Era preferibile per me morire, che fare una vita così da detenuto innocente». Ahmead Ali Farah, per tutti Alaa, ha trent’anni e altrettanti ne dovrà trascorrere in carcere. Studente di ingegneria e promessa del calcio professionale in Libia, è stato condannato dalla corte d’Appello di Messina – insieme ad altri quattro giovani libici – per […]
Il ragazzo condannato a 30 anni di carcere con l’accusa di essere scafista: «Sono innocente, avrei preferito morire»
«Era preferibile per me morire, che fare una vita così da detenuto innocente». Ahmead Ali Farah, per tutti Alaa, ha trent’anni e altrettanti ne dovrà trascorrere in carcere. Studente di ingegneria e promessa del calcio professionale in Libia, è stato condannato dalla corte d’Appello di Messina – insieme ad altri quattro giovani libici – per favoreggiamento di ingresso illegale e omicidio plurimo. L’accusa per lui è di essere stato uno dei componenti dell’equipaggio del barcone su cui, in quella che è passata alla storia come la strage di Ferragosto (raccontata anche nel film Fuocoammare), nel 2015, sono morti asfissiati 49 migranti. Qualche giorno fa, la condanna per Alaa è diventata definitiva: la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai suoi legali per chiedere la revisione del processo. «Abbiamo portato due nuovi testimoni che, però, non sono stati tenuti nella giusta considerazione – commenta a MeridioNews l’avvocata Cinzia Pecoraro – Siamo delusi, ma non ci arrendiamo. Continueremo a cercare verità e giustizia per questa storia». Che, intanto, diventerà un libro composto dalle lettere che Alaa ha scritto dal carcere Ucciardone di Palermo, dove ha già scontato un terzo della pena.
«Distribuiva l’acqua»
Una storia che inizia la notte di Ferragosto di dieci anni fa, quando un barcone con a bordo 313 migranti sopravvissuti viene soccorso dalla marina militare italiana al largo di Lampedusa. Nella stiva vengono trovati i corpi di 49 persone, morte asfissiate durante la traversata. Sbarcati a Catania, Alaa e i connazionali vengono arrestati con l’accusa di essere gli scafisti. «Tutto sulla base di un pregiudizio, perché erano gli unici libici a bordo – sottolinea la legale – Anche loro, però, per scappare dalla guerra, sono partiti pagando dei trafficanti». Tra gli oltre trecento sopravvissuti alla strage, solo nove vengono sentiti come testimoni, subito dopo lo sbarco. «Persone sotto choc, allo stremo delle capacità fisiche e psichiche, che avevano perso familiari nel viaggio, che non dormivano, non mangiavano e non bevevano da giorni e – aggiunge l’avvocata – senza interpreti che parlassero la loro lingua». A riferire su Alaa sono tre di questi nove testimoni. Uno sostiene che «aveva la cintura»; un altro che «distribuiva l’acqua, poi anche se si muovevano (i migranti, ndr), li picchiava»; l’ultimo riferisce che «era molto vicino a chi guidava, poi dava dell’acqua. Non faceva altro». Gli altri sei testi o non lo riconoscono o dicono che non ha fatto nulla.
Le accuse
Tanto basta – oltre alla testimonianza di un ispettore della marina militare che racconta che, al loro arrivo, gli altri migranti avrebbero avuto un moto di reazione nei confronti dei libici – a condannare il 30enne a trent’anni di carcere. Nato a Bengasi nel 1995, per l’accusa Alaa avrebbe favorito l’ingresso illegale dei migranti «dando direttive sulla dislocazione e il mantenimento della posizione dei passeggeri all’interno del natante». In questo modo, avrebbe provocato la morte di 49 migranti (all’interno della stiva larga 4×6 metri e alta un metro e 20 centimetri) per «asfissia da confinamento», ovvero mancanza d’ossigeno, «colpendo con calci, pugni e cinghie ferrate i soggetti che si trovavano nella stiva e bloccando, anche con il proprio corpo, i boccaporti che avrebbero consentito il passaggio al ponte superiore». Una versione smentita da due passeggeri che erano su quello stesso barcone e che, per la prima volta, sono stati sentiti come testimoni dalla difesa che ha poi chiesto la revisione del processo che «è stato frettoloso e basato su mere suggestioni», sostiene le legale che difende Alaa.
«A bordo non c’era equipaggio»
«La gente era incastrata l’uno nell’altra», dicono i due giovani fratelli siriani per spiegare la situazione a bordo del barcone di tredici metri: nessuno poteva muoversi o lasciare il proprio posto. «Non c’è stata nessuna organizzazione, non c’era equipaggio. Sono stati i libici armati, prima di partire (dalla spiaggia di Zuara in Libia, ndr), a stabilire tutto, poi sono tornati indietro su un gommone vuoto. A bordo erano tutti passeggeri come noi – riferiscono i due – Nessuno era responsabile, organizzava o gestiva per mantenere il controllo. Nessuno dava ordini durante la navigazione e nessuno ha distribuito acqua». I testimoni affermano poi di non avere assistito a episodi di violenza e che dalla stiva non si sentivano provenire richieste d’aiuto. Entrambi riferiscono, inoltre, che per tutto il viaggio Alaa «è stato male, ha anche vomitato». Dichiarazioni, rese davanti a un interprete che «comprendeva bene la lingua – si legge nell’istanza di revisione – in un momento di tranquillità e lontani da quella condizione emotiva che può falsare i ricordi». E anche dichiarazioni che «cozzano con quelle rese nell’immediatezze dei fatti da soggetti che poi, in sede di incidente probatorio, hanno modificato la versione».
Passeggeri e/o scafisti
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile. Per l’accusa, gli imputati sarebbero stati coinvolti dai trafficanti poco prima della partenza per fare da guardia delle tre aperture della stiva – trasformata in una camera a gas dai fumi del motore – per bloccare con violenza chi cercasse di uscire. Le nuove testimonianze vengono considerate «inconsistenti. Basti considerare – si legge nell’ordinanza – che si tratta di dichiarazioni che paradossalmente discolperebbero tutti i condannati, escludendo che sul barcone vi fossero altri che passeggeri». L’assunto da cui partono i giudici sembra essere, invece, che i responsabili della strage fossero da trovare proprio tra i passeggeri. Tanto che nella stessa sentenza scrivono che «i condannati sono l’ultima ruota di un mostruoso ingranaggio del traffico di vite umane da parte di improvvisati “scafisti” reclutati tra gli aspiranti passeggeri». Non potendo escludere che abbiano comunque pagato un prezzo per la traversata, ipotizzano sia stato più basso. «Il mors tua vita mea – sentenziano – resta estraneo a una moderna società di diritto basata sul rispetto della persona umana». In conclusione, arriva poi il consiglio di chiedere una grazia al presidente della Repubblica.
Perché ero ragazzo
Una opzione che Alaa non vuole nemmeno prendere in considerazione. «Ha sempre detto che non vuole sconti perché – spiega l’avvocata Pecoraro – è innocente e da tale vuole uscire. Per questo, ci stiamo già mobilitando per cercare altre testimonianze». Intanto, in questi dieci anni dentro le mura, Alaa ha imparato l’italiano, ha preso un secondo diploma e ha partecipato a diversi laboratori. Durante uno di questi ha conosciuto Alessandra Sciurba, la coordinatrice della Clinica legale diritti e migrazioni dell’Università di Palermo. Un incontro da cui è nato uno scambio di lettere, 28 in tutto, che diventeranno un libro (edito da Sellerio) dal titolo Perché ero ragazzo. «Sarà presentato martedì 18 settembre a Roma, nella sede dell’associazione antimafia Libera – anticipa al nostro giornale la legale che lo assiste – E, quel giorno, lì ci sarà una sedia vuota». Quella su cui avrebbe dovuto sedersi «un calciatore partito dalla Libia per seguire il sogno di un futuro migliore – come lo stesso Alaa ha detto a processo nel corso delle sue dichiarazioni spontanee – e finito in un incubo con l’accusa ingiusta e offensiva di essere uno scafista e un assassino».