L'inchiesta Waterfront della Dda di Reggio Calabria torna a fare luce sulle modalità con cui gli imprenditori vicini ai Piromalli lucravano sugli appalti a Gioia Tauro. Ai domiciliari gli agrigentini Francesco e Filippo Migliore, Alessio La Corte e Vito La Corte
Buste in bianco in cambio del 2,5 per cento dei lavori Così la cordata siciliana aiutava le ditte delle ‘ndrine
La «cordata siciliana» al servizio della famiglia ‘ndranghetista dei Piromalli. È così che la Dda di Reggio Calabria definisce Francesco e Filippo Migliore, Alessio La Corte e Vito La Corte, gli imprenditori arrestati ieri nel maxi-blitz Waterfront, secondo filone dell’inchiesta Cumbertazione che già nel 2017 aveva acceso i riflettori su come la famiglia ‘ndranghetista controllava gli appalti aggiudicati a Gioia Tauro e Rosarno. I quattro – tutti originari della provincia di Agrigento – sono finiti ai domiciliari con l’accusa di avere messo le proprie imprese a disposizione di Francesco Bagalà, l’imprenditore calabrese ritenuto il vero burattinaio di un sistema che poteva contare su decine di società pronte ad assecondare gli interessi della criminalità organizzata oltre lo Stretto.
Con la Comel srl, di cui sono stati ritenuti amministratori di fatto, i quattro si sono aggiudicati sulla carta la realizzazione di un parcheggio interrato con piazza nell’ambito dello sviluppo del waterfront del porto di Gioia Tauro. L’opera però, così come le altre finite sotto la lente degli inquirenti, sarebbe stata fatta facendosi beffa della normativa e riuscendo a trarre profitti indebiti – con la disponibilità della direttrice dei lavori Angela Nicoletta e del rup Francesco Mangione – su cui avrebbero messo mano Bagalà e i suoi uomini di fiducia. In particolare, sarebbero venuti meno i controlli sui materiali usati e si sarebbero chiusi entrambi gli occhi di fronte a opere diverse da quelle previste in progetto, ottenendo comunque una liquidazione finale superiore alla spesa autorizzata.
Il coinvolgimento dei siciliani – così come quello delle altre imprese del cartello – sarebbe stato necessario per consentire ai Bagalà – e dietro loro ai Piromalli – di partecipare alle gare sfruttando i requisiti economici e tecnici previsti dai bandi. Tale disponibilità veniva poi ricompensata con una somma del 2,5 per cento dell’importo dei lavori. Un’inezia rispetto alle somme che sarebbero rimaste a chi realmente gestiva i lavori. Gli stessi che, applicando quella che nel gergo criminale viene definita «la tassa ambientale», selezionavano poi maestranze, fornitori e depositi dove tenere le attrezzature utilizzate nei cantieri. «I legali rappresentanti della Comel hanno consentito di truffare in maniera
sistematica Ia Regione Calabria e Ia Comunità europea sottraendo ingenti risorse pubbliche», scrive il gip Filippo Aragona nell’ordinanza che ha disposto gli arresti.
A carico dei quattro agrigentini – già condannati in primo e secondo grado nel processo Cumbertazione – e degli altri imprenditori indagati sono diversi gli indizi. Quello più eclatante riguarda un aspetto che da subito è parso strano agli investigatori: pur provenendo da diverse aree geografiche, i plichi contenenti le offerte per le gare d’appalto riguardanti i Comuni di Gioia Tauro e Rosarno venivano recapitati dagli stessi operatori postali privati. «Dall’attività tecnica è emerso che le buste, riferibili alle imprese conniventi, sono state convogliate da Bagalà – scrivono gli inquirenti – che le ha ricevute per il tramite di raccomandate postali ovvero attraverso una raccolta effettuata anche di persona». Il controllo di Bagalà sarebbe stato tale da far sì che spesso «le offerte in questione erano parzialmente redatte, mancando dell’indicazione relativa al ribasso, che veniva inserita – una volta avuta contezza del valore da indicare – al fine di aumentare la probabilità di aggiudicazione dei lavori e influire così – conclude il gip – sul normale svolgimento delle gare».