Il clan di Sebastiano Mazzei, per gli investigatori, sarebbe il più attivo nei locali notturni della città. Una gestione oculata dietro la quale si celerebbe una fitta rete di intestazioni fittizie. Ad allungare i tentacoli su quest'affare sarebbero però anche i Santapaola e il clan di Salvatore Pillera. Guarda l'infografica
Business Cosa nostra su discoteche e serate I guadagni milionari, tra sfarzo e prestanome
La mafia a Catania ha fiutato l’affare e ha deciso di camuffarsi tra luci stroboscopiche e deejay. Locali alla moda e discoteche, finiti al centro di alcune importanti inchieste della procura di Catania, che hanno fatto emergere i nuovi canali d’investimento delle cosche. Un ruolo predominante sarebbe quello che si è ritagliato negli ultimi anni il clan dei Carcagnusi di Nuccio Mazzei. Il boss, detenuto al 41bis dopo un periodo di latitanza, sarebbe «l’imprenditore in grado di condizionare l’economia», come lo definiscono nelle intercettazioni i suoi affiliati. Un mafioso etichettato come «forte», grazie «al suo modo di fare che faceva tremare». I particolari emergono dalle carte dell’inchiesta Nuova famiglia. Ultimo capitolo di un corposo faldone che contiene già altre due indagini, incentrate sulla cosca dei Mazzei.
L’elenco delle discoteche riconducibili ai Carcagnusi è sempre più lungo. Dal 69 Lune, passando per il Moon fino al Moon Beach. Tutte ritenute dagli inquirenti i «canali economici del clan» e gestite, almeno sulla carta, da una fitta rete di prestanome dietro i quali ci sarebbero Nuccio il Carcagnuso e il suo fedelissimo, William Cerbo. L’uomo con il mito della pellicola Scarface, arrestato a metà del 2014 ma che avrebbe mantenuto i suoi interessi sul 69Lune anche da dietro le sbarre. Tramite una lettera avrebbe incaricato Giuseppe Caruso di riscuotere le somme che gli spettavano dalla gestione del locale. Un quota compresa tra due e tremila euro mensili che in un’occasione sarebbero stati prelevati durante una serata direttamente dalla compagna dell’uomo.
Ulteriori particolari sulla movida emergono anche grazie a una gola profonda. Proprio Caruso, presunto affiliato dei Carcagnusi, poi transitato nelle fila dei Santapaola, fornisce alcuni spunti durante un’intercettazione ambientale. È il mese di novembre del 2014 quando Caruso parla all’interno della sua macchina con una donna. «È una vita che combatto con le discoteche, combattevo al 69Lune, al Moon, al Moon Beach perché erano di Willy (William Cerbo ndr.), ora poi mi sono messo allo Stone». La discussione prosegue con nuovi particolari: «Lui – spiega l’uomo riferendosi a Cerbo – il Moon l’aveva in società con il proprietario dello Stone con Mirko, con quel ragazzo con cui ho parlato sabato, erano soci». A questo punto la donna chiede chi sarebbe il vero proprietario della discoteca Stone: «Di chi è, di Andrea?», domanda lei. «C’è lui», risponde Caruso. Andrea, secondo gli investigatori, sarebbe uno dei fratelli Nizza. Latitante da dicembre 2014, condannato nel processo Fiori bianchi e ritenuto uno degli attuali vertici della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola nel quartiere di Librino.
Mirko Panebianco viene identificato nell’ordinanza Nuova famiglia come «il figlio della zia Rosa». Nome dell’omonimo ristorante di viale Africa intestato alla madre Agata Carmela Fonte, moglie di Carmelo Panebianco. Quest’ultimo è stato rinviato a giudizio dopo l’inchiesta Scarface per mafia e intestazione fittizia. L’uomo, secondo gli investigatori, sarebbe stato in società con Cerbo nel locale Moon. La discoteca Stone – finita nel dialogo intercettato ma non coinvolta in nessuna indagine – risultata intestata ai fratelli Carmelo e Rosario Coniglione che la gestiscono tramite la società Le pietre rosse srl.
«Non c’è nessun provvedimento della procura di Catania nei confronti di Mirko Panebianco – spiega il legale di famiglia, l’avvocato Salvatore Di Dio -. La mafia nell’operazione Scarface a mio avviso c’entra poco o nulla. Caruso è un elemento di poco conto non contestualizzato a livello associativo per quanto di mia conoscenza. Il riferimento a Panebianco Jr è relativo soltanto all’attività organizzativa di serate nei locali. Sul padre Carmelo Panebianco ci tengo a precisare che è stato scarcerato il 16 luglio 2014, dopo tre mesi e mezzo dal blitz per la mancanza di esigenze cautelari. Il 3 settembre dello stesso anno il tribunale del riesame ha inoltre restituito tutti i beni che gli erano stati sequestrati».
Musica, privé e piste da ballo non si fermano però al clan Mazzei. Nel recente passato i sigilli sono scattati alla discoteca Empire, di proprietà dall’incensurato Mimmo Di Bella ma di fatto, secondo gli inquirenti, riconducibile a Giacomo Nuccio Ieni, presunto capomafia della cosca Pillera-Puntina. Ci sono poi i locali dei fratelli Antonio e Andrea D’Emanuele, figli del boss Natale e cugini di Nitto Santapaola. Nel 2013 la direzione investigativa antimafia confisca loro il Sobha. Uno stabilimento balneare alla Playa. Nelle carte dell’inchiesta Arcangelo del 2007 c’è invece il nome del Martini Plaza. Ritrovo per alcuni anni tra i più in voga della città di Catania ma ormai chiuso, era finito al centro delle attenzioni di Angelo Santapaola. Il reggente della famiglia mafiosa vittima di lupara bianca.
Gli affari con le discoteche si spostano anche sulla strada; con i numerosi parcheggiatori che ogni sera stazionano nei pressi dei locali. Nell’area della stazione centrale a gestire gli abusivi sarebbero proprio i clan mafiosi. «Tutto quello che c’è in quel territorio – spiega la magistrata Assunta Musella – deve passare sotto il controllo del clan. Serve anche per dare un segnale di controllo e presenza sul territorio». Nel nome di un tacito accordo tra consorterie, come emerso durante l’indagine Capolinea. Il riferimento è al clan santapaoliano di Giuseppe Zucchero, che avrebbe deciso di non pestare i piedi a quello dei Mazzei, pienamente inserito lungo il viale Africa, e al gruppo della Civita, capeggiato in passato dai boss Carmelo Puglisi e Orazio Magrì, con interessi in zona.