Beni confiscati, i rischi della vendita per Libera Terra «Sarebbe scorciatoia per uno Stato che si arrende»

«La possibilità di vendere i beni confiscati ai privati, rispetto alle disposizioni contenute nel decreto sicurezza, diventa una scorciatoia per evitare le problematiche che si riscontrano nella destinazione e nell’assegnazione degli averi tolti alle mafie a chi li utilizza per fini sociali. Il rischio più grande è quello di uno Stato che si arrende di fronte a delle criticità gestionali nel riutilizzo sociale». A parlare a MeridioNews è Alfio Curcio, l’amministratore della cooperativa Beppe Montana che gestisce circa 90 ettari di terreni confiscati tra le provincie di Catania e Siracusa. 

La vendita di questi beni era già possibile per alcune categorie di soggetti come extrema ratio, una volta assodata l’impossibilità di riutilizzarli per finalità sociali. «Il bene confiscato è un bene pubblico – ricorda Curcio – e attraverso il suo riutilizzo sociale siamo tutti chiamati a riappropriarci del maltolto», come recitava lo slogan utilizzato dall’associazione Libera per lanciare la campagna che invitava i cittadini a sottoscrivere il disegno di legge d’iniziativa popolare (poi approvato il 7 marzo del 1996) che ha dato il via al riutilizzo sociale con l’assegnazione a realtà no profit, come associazioni o cooperative sociali. «Altro pericolo che intravediamo – dice il presidente della cooperativa che svolge attività agricola dal 2010 – è che, senza cautele e controlli adeguati, i beni messi all’asta non solo siano venduti a prezzi svalutati ma che l’acquisto possa essere realizzato attraverso prestanome dalla faccia pulita ma legati alle organizzazioni mafiose».

Le cooperative di Libera Terra, progetto nato nel 2001 dall’associazione guidata da don Luigi Ciotti, rappresentano un esempio di un possibile percorso di riuso collettivo. Quella dedicata a Beppe Montana – commissario della squadra mobile di Palermo, ucciso da Cosa nostra nel 1985 – conta oggi sei soci lavoratori e venti operai stagionali, molti dei quali appartengono a categorie svantaggiate. «Un segno concreto di cambiamento che crea un’alternativa reale e visibile in contrasto con la presenza del sistema economico mafioso e che ha un forte impatto anche a livello culturale nella lotta alla criminalità organizzata», afferma Curcio. 

A riportare alle cronache il tema della vendita dei beni tolti alle mafie era stato, la scorsa estate, il ministro dell’Interno Matteo Salvini. La notizia, sin da subito, aveva suscitato clamore e proteste. Tra l’altro, la stessa politica era stata portata avanti in precedenza anche da Antonello Montante, l’ex numero uno di Confindustria arrestato dalla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, che nel recente passato ha avuto un ruolo importante dentro l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc).

«Ogni sistema non è perfetto, ma perfettibile – commenta Curcio – e la vendita dei beni non è la soluzione. Ci sono ancora molte inefficienze nella gestione ma ci sembra che l’Agenzia non sia stata messa in condizioni di lavorare efficacemente. Non ha, per esempio, i mezzi per monitorare, censire e assegnare velocemente i beni che ha in gestione e quindi spesso i tempi si dilatano e i beni, pur essendo stati assegnati, non sono utilizzabili perché sono rimasti per troppo tempo in stato di abbandono. In questo senso – conclude – pensiamo che prima di arrivare alla vendita ai privati bisognerebbe cercare di rendere più efficace il sistema che sta alla base delle destinazioni e delle assegnazioni. I problemi si affrontano mettendo in campo soluzioni, non scorciatoie che li aggirano senza risolverli».


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